14/06/2017, 08.29
QATAR - GOLFO - USA - UE
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L'assenza dell'Europa e gli interessi Usa nella crisi fra Riyadh e Doha

di Luca Galantini

Il confronto fra Arabia Saudita e Qatar cartina di tornasole del clima di tensione in Medio oriente. E fra sunniti e sciiti per il primato nell’islam. La politica aggressiva di Riyadh sostenuta da Trump per ragioni economiche. Bruxelles incapace di favorire il riconoscimento del pluralismo politico, sociale e religioso. 

 

Milano (AsiaNews) - Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è scagliato contro l’isolamento imposto da un gruppo di nazioni arabe al Qatar; una prova di forza decisa dai vertici del regno, nel contesto della controversia in atto da giorni fra Riyadh e Doha per il (presunto) sostegno di quest’ultima a movimenti terroristi e i legami con l’Iran. Il leader di Ankara ha parlato di situazione “disumana e contraria ai valori islamici”.  

La scorsa settimana Bahrain, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, dietro indicazione dell’Arabia Saudita, hanno tagliato tutti i legami, commerciali e diplomatici, con il Qatar. Per Erdogan questa decisione equivale a una “condanna a morte”. 

Da qui la decisione di Ankara. insieme a Oman e Marocco, di inviare derrate alimentari al Qatar, come già fatto nei giorni scorsi dall’Iran, oltre all’apertura dello spazio aereo della Repubblica islamica ai velivoli dell’emirato. Nell’inviare aiuti, il Marocco ha però chiarito che intende rimanere “neutrale” nel contesto della disputa. In queste ore è intervenuto anche il ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani, che parla di decisione “ingiusta” e “illegale” da parte di Riyadh e dei suoi alleati. 

Ma questa crisi medio-orientale non sarebbe così drammatica se Europa e Stati Uniti avessero giocato un ruolo più preciso nel dialogo e nella ricerca del rispetto dei diritti umani. Ecco l'analisi del prof. Luca Galantini.

 

Il feroce confronto politico-diplomatico in atto da una settimana in Medio oriente fra Arabia Saudita, i suoi alleati - Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Egitto, Yemen e Maldive - e il Qatar è la cartina di tornasole del pericoloso clima da resa dei conti, a livello internazionale, nel mondo sunnita e fra il mondo sunnita e quello sciita, per la supremazia nella regione e nei rapporti di forza in seno all’islam.

La grande fragilità delle relazioni internazionali in quest’area del mondo, determinante per la pace e la sicurezza del pianeta, riflette la logica di “machtpolitik” [privilegiare  una politica di forza e di ricorso agli strumenti militari, ndr] che caratterizza in misura determinante le strategie dei governi delle principali potenze sunnite della regione, Arabia Saudita in testa.

La decisione di isolare il Qatar a livello diplomatico con l’accusa, assai poco provata, di sostenere, finanziare, abbracciare  il terrorismo islamico; il faraonico accordo economico decennale per un valore di circa 400 miliardi di dollari stipulato di recente fra il presidente Usa Donald Trump ed il re saudita Salman, finalizzato all’acquisto di forniture militari statunitensi ad alto potenziale tecnologico;  la demonizzazione dell’Iran sciita ritenuto –  senza elementi probatori concreti –  l’unico artefice e responsabile del terrorismo di matrice islamista in Medio oriente e Occidente. Tutti questi elementi mostrano la pervicace volontà dei sauditi di assumere in modo unilaterale la leadership politica, economica e militare del Medio Oriente, emarginando sia quei Paesi sunniti come il Qatar che non condividono questa strategia e cercano di creare reti di collaborazione con le varie fazioni dell’area, sia le stesse  popolazioni sciite residenti nei Paesi sunniti, che vedono così nell’Iran degli ayatollah un riferimento identitario religioso e di tutela politica centrale.

L’attacco terroristico a Teheran, rivendicato dal fronte sunnita dello Stato islamico, ne è una ragionevole prova.

Il rischio è di gravi contraccolpi a livello globale, perché si viene a creare una vera e propria “geografia internazionale dello scontro” in Medio oriente, su cui convergono una infinità di interessi di carattere politico, economico, ideologico, religioso ed etnico: Russia, l’Iran sciita, il Qatar, addirittura la stessa Turchia vicina ai Fratelli Musulmani. Queste realtà temono molto l’azione aggressiva dell’Arabia Saudita, sostenuta in modo disinvolto dall’amministrazione Trump per mere ragioni economiche e di interesse nazionale. Lo stesso fronte anti-iraniano sostenuto dall’azione congiunta Trump-Arabia Saudita non favorisce il dialogo e la cooperazione reciproca tra i Paesi dell’area mediorientale.

I capi d’accusa mossi nei confronti dell’emiro del Qatar Tamim al-Thani - il sostegno a movimenti politici fondamentalisti e radicali come la Fratellanza musulmana e Hamas, anche tramite la potente rete televisiva al-Jazeera - non possono far dimenticare le pericolose connivenze che, in modo diretto o indiretto, l’ideologia religiosa wahhabita dell’Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti mantengono con i movimenti terroristi islamici dello SI e di al Qaeda. E di questo le cancellerie internazionali, e soprattutto occidentali sono ben a conoscenza.

Le spregiudicate ambizioni politiche delle ricchissime monarchie locali arabe rischiano di destabilizzare quindi anche la penisola arabica e l’intera regione del Golfo, facendo precipitare i già fragilissimi equilibri dell’area mediorientale. Questa destabilizzazione permanente rischia a sua volta di far aumentare - e non decrescere - la tensione attorno allo Stato islamico, ai territori occupati in Siria ed Irak, e anche [di riflesso] di aumentare le azioni terroristiche in Europa.

In questo Risiko così complesso e preoccupante, le Nazioni Unite e l’Occidente, diviso tra Stati Uniti ed Europa, sono purtroppo i “convitati di pietra”, i grandi assenti.

In verità l’amministrazione Trump oggi ha scelto in modo chiaro la via di un pragmatico, cinico appoggio al contendente che sulla carta ha le maggiori chances di assumere il ruolo di leadership nel quadrante mediorientale, cioè l’Arabia Saudita. Disponibilità di infinite risorse finanziarie che possono foraggiare vantaggiosi contratti per le ditte Usa degli armamenti e per le imprese petrolifere, in grado così di garantire alla Casa Bianca investimenti e creazione di posti di lavoro negli Stati Uniti.

Al tempo stesso, con questa opzione gli Stati Uniti hanno messo nel cassetto ogni attenzione per le politiche di cooperazione e sviluppo ispirate ai principi Onu dei diritti umani, dello sviluppo e promozione delle libertà fondamentali della persona, della promozione di sistemi politici democratici e di partecipazione civile responsabile al bene comune. Esattamente il contrario di quanto caratterizza ad oggi le dispotiche monarchie e satrapie arabe. A Riyadh Trump nel suo discorso davanti a re Salman ha cinicamente elogiato l’Arabia Saudita come esempio di tolleranza e convivenza per i Paesi vicini.

Le indubbie responsabilità degli Stati Uniti non devono farci trascurare quelle, non meno gravi, dell’Europa. Se Washington ha dimostrato una pur opinabile e pericolosa scelta privilegiando una joint-venture di lungo corso con il regime saudita, Bruxelles purtroppo dimostra la totale e completa latitanza sul fronte mediorientale. Tutto ciò, pur essendo paradossalmente la prima vittima degli atti criminali di terrorismo di matrice islamista, più effetto che causa del perverso connubio fra religione e politica in Medio oriente.

La Ue da sempre vanta il suo ruolo di “civil power”, potenza civile che esclude nelle relazioni internazionali l’opzione del predominio bellico a favore del primato dei diritti dell’uomo: tuttavia i contesti socio-politici dei Paesi mediorientali, anche a seguito del fallimento delle aspettative  susseguitesi a cavallo delle Rivolte Arabe del 2010-2011 dimostrano la mancanza di progettualità dell’Europa in merito a programmi strategici in grado di favorire sviluppo, pace e sicurezza.

I cosiddetti “Parametri di Copenaghen”, cioè i principi giuridici generali degli accordi che legano i Paesi europei in seno alla Ue e con gli Stati extra-Ue, impongono il rispetto della democrazia e della rule of law, la promozione dei diritti fondamentali della persona umana. Perché, dunque, l’Ue non ha saputo creare una road-map in politica estera? Perché non ha saputo far proprio il manifesto della conferenza dell’università al-Azhar dello scorso febbraio, quando i rappresentanti religiosi e politici, gli intellettuali di fede islamica e cristiana del mondo arabo, si sono riuniti per promuovere la riforma costituzionale dello Stato nei Paesi islamici nel nome dei principi di cittadinanza, laicità e pluralismo religioso?

In verità è totalmente assente l’azione diplomatica della Ue per la definizione di strumenti multilaterali per la sicurezza regionale. Le più recenti crisi, dalla Libia alla Siria, allo Yemen, hanno dimostrato che il rinsaldarsi tra logiche del confronto regionale e locale ha creato una combinazione difficilmente gestibile, in cui i Paesi europei preferiscono rincorrere il proprio interesse nazionale poiché non sono in grado di pensarsi ed agire come Unione.

Osserviamo come gli Stati della Ue si dividano nel sostenere di volta in volta una delle fazioni o gruppi in lotta: in Libia, in Siria, in Iraq e Kurdistan la Francia, la Gran Bretagna, la Germania e l’Italia, i veri donors-finanziatori della Ue sono sempre divisi nella scelta delle fazioni da sostenere.

In Siria, la Germania e la Francia hanno plaudito all’azione militare statunitense di bombardamento delle forze siriane ma, al contempo, operano contro lo SI che è il nemico numero uno del dittatore Assad. Così pure per quanto riguarda l’Iran vediamo la Ue divisa tra una fronda filo-Usa e una a favore del dialogo con la teocrazia di Teheran. In Gran Bretagna il Guardian ha svelato che il governo ha bloccato una indagine ministeriale, la quale faceva luce sulla profonda connivenza del governo saudita nel finanziamento dei movimento e dei predicatori fondamentalisti wahhabiti nelle moschee sparse sul territorio inglese

Se siamo quindi di fronte a situazioni di crisi potenzialmente esplosive in Medio oriente, ciò non è imputabile solo al conclamato unilateralismo nordamericano, oltre che alla conflittualità interna al mondo islamico. La parola chiave dell’azione degli Stati europei dovrebbe consistere nella capacità di favorire l’inclusione dei principali attori regionali, promovendo il mutuo riconoscimento e una definizione di procedure di fiducia tra i Paesi della regione. Inoltre, Bruxelles dovrebbe favorire il riconoscimento del pluralismo politico, sociale e religioso, come presupposto condiviso, per evitare che si formino “fortezze” contrapposte in relazioni fra loro conflittuali e di ostilità permanente. Nel solco di una politica del bene comune, che valorizza ciò che unisce piuttosto che ciò che divide.

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