17/02/2022, 09.26
MYANMAR - THAILANDIA
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Bangkok: le voci dei profughi birmani che hanno varcato il confine

Un'insegnante, una contadina, un padre di famiglia: sono solo alcuni delle decine di migliaia di rifugiati che sono scappati in Thailandia per evitare le violenze della giunta militare birmana. Le autorità thailandesi ora minacciano di espellerli. AsiaNews rilancia i loro racconti.

A poco più di un anno dal colpo di Stato con cui i militari hanno ripreso il potere in Myanmar, la repressione e le operazioni belliche non hanno fermato l’opposizione che, dopo il fallimento delle proteste pacifiche seguite al golpe, si è unita alla lotta armata con le milizie etniche.

La guerra civile si è diffusa in tutto il Paese e oggi nessuna città è risparmiata dai combattimenti. A dicembre la giunta militare ha bombardato per una settimana Loikaw, capoluogo dello Stato Kayah, dove si concentra(va) buona parte della popolazione cristiana. Gli scontri hanno generato un esodo di rifugiati: secondo i dati dell’Unhcr sono oltre 400mila gli sfollati interni, ma qualche decina di migliaia sono riusciti a fuggire in India o Thailandia.

La Fondazione Pime ha deciso di aprire il Fondo S145 Emergenza Myanmar per sostenere le iniziative delle Chiese locali in favore di questi profughi. L’obiettivo della campagna è dare un aiuto immediato a migliaia di persone, andando a sostenere la rete di accoglienza che le diocesi di Taungoo e di Taunggyi stanno allestendo. Le informazioni su come donare sono consultabili a questo link.

Anche per chi è riuscito a varcare i confini del Myanmar la situazione è altrettanto difficile. Proponiamo qui sotto le testimonianze di alcuni di profughi di etnia karen rifugiatisi in Thailandia, costretti a lasciare le loro terre attorno al villaggio di Lay Kay Kaw, nell’area di Myawady. Ora vivono nella precarietà perché sotto minaccia di espulsione dalle autorità thailandesi. Un ritorno in patria li esporrebbe alle ritorsioni dei militari golpisti.

“Quando i combattimenti sono iniziati, non ho pensato ad altro che a correre, in lacrime, convinto che sarei stato ucciso e che se anche fossi sopravvissuto mi sarei ritrovato impotente a ricostruire la mia vita perché abbiamo perso tutto. Per qualche tempo, in tre famiglie siamo rimasti insieme nella stessa casa senza osare uscire e non abbiamo potuto fare altro che incoraggiarci l’un l’altro a pregare Dio fino a quando in modo fortunoso, pur separati, siamo riusciti ad allontanarci. Io ho 45 anni e sono originario della regione del Delta (dell’Irrawaddy) ma alcuni anni fa mi sono trasferito a Lay Kay Kaw che ho dovuto abbandonare per gli scontri frequenti tra i militari birmani accampati nei centri abitati e i soldati karen che vivono sulla montagna.

È pericoloso venire in contatto con i militari del regime. Prima dei combattimenti sono venuti a perquisire ogni casa e dove non trovavano i capifamiglia distruggevano porte e finestre.

Quando siamo partiti eravamo più numerosi ma una volta passato il confine alcuni si sono separati e siamo rimasti in 29 famiglie con 30 bambini sotto i 15 anni. Non abbiamo assistenza medica e per i casi più gravi dobbiamo recarci in una clinica di Kyaw Keh, in Myanmar. Prima della fuga mi guadagnavo da vivere facendo le pulizie in ospedale, ma ora ho perso il lavoro e ho con me solo i miei cuscini. Adesso vivo in Thailandia, appena al di là del fiume, ma presto sarò come altri costretto ad andarmene, perché ci hanno dato solo pochi giorni per completare i lavori agricoli di chi ha potuto disporre di un po’ di terreno da coltivare durante il suo soggiorno. Non è pensabile rientrare, però, perché oltreconfine il rischio è troppo alto. Devo vivere separato dalla famiglia, con i miei figli ancora in Myanmar, in fuga dai combattimenti”.

"Sono un’insegnate buddhista ma mio marito è cristiano. Il 14 dicembre, quando i militari sono entrati a Lay Kay Kaw e hanno arrestato tre miei colleghi e un membro del Parlamento insieme a quattro attivisti, io mi trovavo a scuola per l’inizio dell’anno scolastico. Non potevo tornare a casa e per questo mi sono nascosta per tre ore in un fossato con i bambini e altri insegnanti. Appena i combattimenti sono cessati, ho deciso con mio marito di andare in un villaggio più protetto, Maewahkeh, portando con noi solo un cambio di vestiti, il mio telefono, qualche libro e del denaro. Dopo due settimane, il giorno di Natale, i soldati hanno attaccato con l’artiglieria e con droni e elicotteri il campo per sfollati dove avevamo trovato rifugio. Tutto era in fiamme e con altre 200 persone siamo fuggiti verso un’area chiamata ‘Campo 1’ dove ci siamo fermati cinque giorni e poi con l’aiuto di soldati karen ci siamo spostati nella foresta, ma solo per poco tempo, perché nemmeno loro potevano garantire la nostra sicurezza. In un altro villaggio abbiamo trovato qualcuno che conosceva dei Karen già insediati in Thailandia e attraverso di loro siamo arrivati qua dove ci troviamo da un mese, nascondendoci dalle autorità thailandesi. Ci sentiamo comunque in pericolo e siamo costantemente in allerta perché non abbiamo documenti. Non so come contattare mia madre e mio fratello da cui ci siamo separati nella fuga e che so essere nascosti nella foresta vicino a Lay Kay Kaw. Intanto, come posso, continuo a portare avanti i programmi educativi online organizzati dal ministero per l’Educazione del Governo di unità nazionale, in clandestinità”.

“Ho 33 anni e sono una contadina. Sono cristiana e il mio villaggio si trova a pochi chilometri da Loy Kay Kaw, vicino a dove sono iniziati i combattimenti. Siamo in un territorio controllato dall’esercito karen che però spesso non interviene per non provocare ritorsioni o la perdita del raccolto per gli agricoltori. Abbiamo dovuto aspettare qualche tempo dopo essere stati portati sulla sponda del fiume, fino a quando un capo-villaggio sul lato thailandese si è impietosito e ha organizzato il nostro passaggio su una piccola imbarcazione. Ho attraversato il confine il 19 dicembre dopo giorni di combattimenti portando soltanto una borsa per me e i miei tre figli, di cui uno piccolo. Adesso siamo nascosti in una casa del villaggio con altre donne e bambini.

Ho lasciato dietro di me il granoturco e i legumi che non ho potuto raccogliere e sono preoccupata, perché se i militari birmani dovessero bruciare il raccolto io perderei il reddito di un anno.

Vorremmo tornare indietro ma chi di noi è rientrato per osservare la situazione ha visto i militari ancora più vicini e riferito che sparano alla gente. L’esercito karen ci sconsiglia il ritorno ma alcuni non hanno potuto fare diversamente per raccogliere quanto è maturato nei campi. Per noi la situazione è complicata dal fatto che io sono moglie di un soldato karen e se tornassimo a casa potremmo essere uccisi”.

  

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