11/12/2025, 11.20
LANTERNE ROSSE
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Farmaci: la nuova leva geopolitica della Cina

di Andrea Ferrario

Negli ultimi anni Pechino è passata dalla produzione massiccia di farmaci generici alla scommessa sulla ricerca biomedica avanzata. Grazie a un modello di crescita molto simile a quello adottato per le auto elettriche, oggi controlla l’80% dei principi attivi globali. Il caso Fentanyl ha mostrato l'importanza di questa carta, descritta come una "opzione nucleare" nelle guerre commerciali. Ma la Cina ha comunque bisogno dell'Occidente per reggere in questo mercato.

Milano (AsiaNews) - Circa settecento farmaci venduti negli Stati Uniti dipendono da almeno un ingrediente prodotto esclusivamente in Cina. Un antibiotico comune come l’amoxicillina richiede per esempio quattro materiali di partenza, quasi tutti prodotti da industrie cinesi. Sono cifre poco note al grande pubblico, che indicano però con chiarezza la distribuzione del potere produttivo: la Cina controlla l’80% dei principi attivi globali, il 70% della produzione mondiale di vitamina C e il 90% della penicillina. Nel dibattito americano questa dipendenza è stata descritta da alcuni come una “opzione nucleare” nelle mani di Pechino, un’immagine che indica quanto questa concentrazione sia percepita come un punto debole del sistema sanitario statunitense.

In realtà, proprio per i suoi effetti potenzialmente devastanti, questa arma è praticamente inutilizzabile. A differenza delle terre rare, sulle cui esportazioni la Cina ha già imposto controlli, i farmaci toccano direttamente la vita delle persone. Un embargo farmaceutico scatenerebbe una reazione globale senza precedenti, isolando Pechino e privando i pazienti cinesi dell'accesso ai trattamenti oncologici avanzati in cui gli Stati Uniti mantengono il primato tecnologico. Se la Cina dovesse utilizzare medicinali in grado di salvare vite come strumento di pressione politica non farebbe altro che danneggiare irreparabilmente la propria credibilità internazionale.

Il caso del fentanyl mostra tuttavia che la Cina può esercitare pressioni meno appariscenti, ma pur sempre efficaci. In occasione dell'accordo commerciale tra Xi Jinping e Donald Trump del novembre scorso, Pechino ha introdotto nuove licenze che restringono l'esportazione di tredici precursori chimici del fentanyl diretti negli Stati Uniti, in Messico e in Canada. In cambio di questo impegno a limitare il flusso di ingredienti per oppioidi sintetici, Washington ha ridotto dal 20% al 10% le tariffe doganali sulla Cina. Formalmente una concessione agli Stati Uniti, la mossa ha tuttavia dimostrato quanto Pechino controlli sostanze chimiche critiche e possa usarle come moneta di scambio. Non si è trattato di un episodio isolato, perché già durante la pandemia di Covid-19, nel marzo 2020, l'agenzia Xinhua aveva suggerito che eventuali restrizioni cinesi su prodotti sanitari avrebbero messo gli Stati Uniti in grave difficoltà.

La dipendenza farmaceutica degli Usa riguarda soprattutto i medicinali generici, che rappresentano il 90% delle prescrizioni nel Paese e hanno margini talmente ridotti da rendere la rilocalizzazione quasi impossibile. La produzione dei principi attivi è inoltre molto inquinante, il che rende ancora meno realistico un ritorno su larga scala delle loro fabbriche in Paesi occidentali. L’India ha introdotto incentivi nel 2020, ma ciò non ha impedito alle imprese cinesi di restare più competitive, mentre Giappone e Unione Europea stanno cercando di ricostruire capacità interne, senza però riuscire a scalfire il predominio di Pechino.

Ma come è riuscita la Cina a raggiungere in tempi molto brevi una posizione di tale forza? La risposta rimanda a un processo di trasformazione industriale che ricorda da vicino l’ascesa dei veicoli elettrici cinesi.

L'ingegneria come motore dell'innovazione

Negli ultimi anni la Cina è passata dall’essere principalmente un produttore di farmaci generici a un protagonista della ricerca biomedica avanzata. Le sue aziende stipulano oggi una parte significativa degli accordi internazionali con le grandi multinazionali farmaceutiche, segno di un riconoscimento crescente della qualità della ricerca locale. Tale evoluzione è confermata dalla maggiore presenza cinese nei trial clinici globali e dal ruolo ormai rilevante nelle tecnologie oncologiche di nuova generazione, pensate per colpire le cellule malate con una precisione molto superiore ai trattamenti tradizionali.

Il modello cinese di innovazione farmaceutica si fonda sull'eccellenza ingegneristica più che sulla ricerca scientifica di base. Il fondatore di un'azienda biofarmaceutica di Shanghai, intervistato dal Financial Times, ha spiegato che lo sviluppo di nuovi farmaci somiglia più alla risoluzione di un puzzle che al compiere scoperte fondamentali. La Cina dispone in questo campo di vantaggi strutturali notevoli, che le permettono di far avanzare una nuova molecola dalla scoperta all’ingresso nei trial clinici in tempi molto più rapidi rispetto alla media globale. Anche l’arruolamento dei pazienti procede con maggiore velocità, favorito da una popolazione numerosa e con un forte bisogno di cure, mentre i costi della ricerca clinica rimangono sensibilmente inferiori a quelli delle multinazionali occidentali. Questa combinazione di rapidità ed economicità è possibile grazie a una filiera farmaceutica completamente integrata, che riduce al minimo le dispersioni lungo il percorso di sviluppo.

In questo contesto, non sorprende che la maggior parte dei nuovi farmaci sviluppati in Cina rientri ancora nelle categorie che rielaborano terapie già esistenti, una scelta che privilegia la solidità commerciale rispetto alle più rischiose attività di ricerca. Si tratta di un’impostazione favorita dalle politiche di Pechino, che a partire dal decennio scorso hanno inserito la biotecnologia tra i settori strategici. Le riforme hanno attirato un’ondata di nuovi investimenti e quotazioni, consolidando l’intero comparto e spingendolo verso una crescita più coordinata. Come osservano diversi dirigenti del settore, il modello ricorda quello dei veicoli elettrici, perché una volta stabilita una base produttiva solida diventa più facile competere anche nelle tecnologie più avanzate.

L'interdipendenza che limita i rischi di conflitto

La dipendenza occidentale in ambito farmaceutico non è però unidirezionale. È vero che la Cina domina la produzione degli ingredienti, ma gli Stati Uniti restano il principale mercato mondiale per i farmaci innovativi, assorbendo quasi la metà della domanda globale. Il confronto tra i due sistemi è eloquente, visto che il mercato cinese vale solo una frazione di quello americano e il rigido sistema assicurativo del Paese impone alle aziende riduzioni di prezzo drastiche per ottenere la rimborsabilità, alimentando una competizione interna sempre più aggressiva. In tale contesto, un farmaco innovativo che un tempo poteva conservare posizioni di monopolio per oltre un decennio, oggi fatica a mantenere un vantaggio anche solo per uno o due anni, una spirale competitiva che in Cina viene definita "involution". Questa pressione, inizialmente circoscritta al mercato domestico, comincia ora ad avere riflessi anche all’estero, dove la crescente presenza delle aziende cinesi nelle cessioni di licenze potrebbe tradursi in prezzi più bassi e cicli di conseguimento della redditività più brevi anche per le grandi multinazionali occidentali.

Queste ultime si avvicinano a una delle peggiori “scogliere brevettuali” della loro storia, con molti farmaci destinati a perdere la protezione fornita dai brevetti entro il 2030 e a lasciare un vuoto di entrate che spinge a cercare nuove molecole ovunque, ma sempre più spesso in Cina, dove le aziende biotech hanno valutazioni molto più basse e condizioni di licenza più convenienti. Questo interesse, però, si scontra con ostacoli sempre più evidenti. La Food and Drug Administration è restia ad approvare farmaci basati su trial condotti unicamente in Cina, mentre a Washington crescono le pressioni politiche per controllare il trasferimento di dati sensibili e per limitare le collaborazioni con aziende cinesi. Sono tutti segnali di irrigidimento che potrebbero rallentare l’ingresso delle biotech cinesi nei mercati occidentali.

Gli esperti ritengono che passerà ancora molto tempo prima che le aziende cinesi possano competere, in termini di scala e capacità operative, con gruppi come Johnson & Johnson o AstraZeneca. Nessuna impresa cinese compare tra i primi venti colossi globali e molte biotech, spesso ancora non redditizie, faticano a reperire le risorse necessarie per costruire reti di vendita all'estero o a orientarsi da sole in sistemi normativi più complessi. Rimane quindi una relazione di interdipendenza che rende improbabili mosse drastiche, tanto più che gli Stati Uniti si trovano a dover conciliare obiettivi contraddittori come ridurre l'esposizione verso la Cina mantenendo al contempo bassi i prezzi dei farmaci, un equilibrio che i dazi difficilmente possono garantire.

 

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