I Nivki, abitanti originari dell’Estremo Oriente russo
Sulle sponde del fiume Amur e sull'isola di Sakhalin vivono da tempi immemorabili piccoli gruppi etnici che sfidando temperature rigidissime restano distanti dalla Russia di oggi e conservano tradizioni religiose animiste. Raccontati dai grandi esploratori russi dell'Ottocento oggi sono un piccolo popolo di poche centinaia di persone che parlano una lingua propria. E pensano che anche se si estingueranno si riuniranno ai cicli della natura.
Mosca (AsiaNews) - Il sito Sibir.Realii prosegue nel suo progetto Takie malye narody, “Che piccoli popoli”, in cui racconta le storie degli “aborigeni” della Siberia e dell’Estremo Oriente russo fino alle coste e alle isole sull’Oceano Pacifico. Sulle sponde del fiume Amur, la regione del Priamurje che segna il confine tra la Russia e la Cina, e sulla grande isola di Sakhalin che sorge appena dopo la foce del grande fiume, vivono ancora da tempi immemorabili gli esponenti di piccoli gruppi etnici chiamati con varie denominazioni, dai Manciù ai Giljaki, un termine che deriva approssimativamente dalle “barche”.
Un altro nome generico è quello dei Nivki, dalla parola nivk che significa “uomo”, scoperti dall’esploratore russo Vasilij Pojarkov nel 1644, quando discese lungo le acque dell’Amur, raggiungendo la sua fuoruscita sull’oceano. Una delle prime descrizioni etnografiche fu pubblicata nel 1849 dal capitano Gennadij Nevelskoj, che distinse Sakhalin come isola, accertando la navigabilità della foce del fiume, concludendo che i Giljaki “si trovano a una distanza incredibile da ogni forma di civiltà”, e anche che “non hanno alcuno spirito combattivo”. Vivevano in gruppi tribali tra le 15 e le 200 persone, abitando nelle yurte, le grandi tende o capanne nomadi, presso le pareti interne delle quali “sono disposte delle calde cuccette, riscaldate dai tubi provenienti dai camini”.
Il cibo di base di questa popolazione è sempre stato il pesce essiccato al sole, chiamato jukola, come scriveva Nevelskoj, “salmone o platessa”, ma si praticava anche la caccia marittima ai pesci più grandi e predatori, e se necessario si mangiava anche la carne canina. Nella dimora dei Nivki poteva trovare ospitalità qualunque viandante, anche del tutto estraneo, purché disposto ad osservare le abitudini della famiglia, “senza sdraiarsi nella cuccetta con la testa alla parete, e senza portare il fuoco fuori dalla yurta”, altrimenti si veniva cacciati e nessun altro avrebbe accolto il trasgressore, come racconta anche un altro esploratore, Vladimir Arsenev, definendo questo sistema una specie di “comunismo originario”.
Vedendo come i russi estraevano le patate dalla terra e le mangiavano senza morire, i Giljaki hanno cominciato anche a coltivare le terre. Lo scrittore russo Ivan Gončarov visitò questa regione nel 1854, raccontando di come “essi vivono anche a -40 gradi sotto i cespugli del legno secco, anche madri con i bambini al seno, se vogliono accendono un falò, tanto qui di bosco ce n’è tanto… mangiano salmone rosa e aglio selvatico, ma sono pochi e intorno a loro c’è un vuoto infinito”. È famoso il viaggio di Anton Cechov nel 1890, di cui ha scritto nel libro “L’isola di Sakhalin”, raccontando che i Giljaki furono costretti a trovare spazio nelle terre continentali per le pressioni dei giapponesi (i conflitti russo-giapponesi per le isole di queste latitudini non si sono ancora risolti). A parere del grande drammaturgo i Giljaki “non appartengono né alla etnia mongola, né a quella tungusa, ma sono un popolo unico e sconosciuto, che forse una volta dominava l’Asia intera”. In effetti gli studiosi discutono ancora oggi sulla reale provenienza dei Nivki.
Questo strano piccolo popolo oggi è ridotto a poche centinaia di persone, che conservano tradizioni religiose animiste, prestando la devozione a tutto ciò che la natura offre: l’acqua, la terra, le piante e tutto il resto. Non hanno una pratica sciamanica ufficiale, si ricorre a maghi e indovini solo se strettamente necessario, in caso di gravi malattie, incidenti o carestie, e anche per questo non furono particolarmente toccati dalla propaganda ateista sovietica, né si concedono volentieri a quella ortodossa della Russia attuale. Come racconta l’ultimo scrittore ed esponente della cultura dei Giljaki, Vladimir Sangi, “il Nivk crede che in caso di necessità ci si possa trasformare in uccello, pesce o fiera dei boschi, e se oggi viene considerato membro di un popolo in via di estinzione, la cui lingua non è praticamente più parlata da nessuno, egli non si preoccupa più di tanto, perché sa di potersi confondere con la natura, e parlare tutte le lingue delle creature che la popolano”.
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