07/06/2025, 08.58
MONDO RUSSO
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La Russia, la fede di Nicea e il bisogno di un dialogo di pace

di Stefano Caprio

Anche Mosca ha ricordato in questi giorni i 1700 anni del primo Concilio ecumenico che stese il testo della professione di fede. E pochi giorni dopo la telefonata tra Putin e papa Leone XIV è stata l'occasione per rilanciare anche il dialogo tra la Chiesa di Roma e quella ortodossa russa. Come nel IV secolo, dopo la fine delle persecuzioni, anche oggi la sfida per i vescovi d’Oriente e Occidente è mostrare agli imperatori una verità più grande di ogni pretesa di dominio

Le Chiese ortodosse non festeggiano insieme ai cattolici il Giubileo della speranza, che segue le scadenze proprie delle grandi celebrazioni della tradizione cattolica latina, e non sono mai state assunte dagli ortodossi, tranne che per i millenni. Quest’anno – però - unisce tutti il grande appuntamento dei 1.700 anni del primo Concilio ecumenico di Nicea, a cui risale la prima versione del Simbolo di fede comune a tutte le confessioni cristiane, e che gli ortodossi attribuiscono in modo particolarmente importante alla propria tradizione, essendo stato proclamato nel luogo dove stava sorgendo la “seconda Roma” di Costantinopoli.

Anche il patriarcato di Mosca ha celebrato solennemente questa data, essendo una Chiesa discendente direttamente dalla tradizione bizantina, quindi “niceno-costantinopolitana”, pur essendo nata quasi sette secoli dopo il Concilio di Nicea, e oltre due secoli dopo l’ultimo dei grandi concili dell’epoca patristica, il II di Nicea del 787. La Russia fu comunque evangelizzata nel primo millennio, con la scelta del battesimo di Costantinopoli dopo “l’indagine delle fedi” narrata dalle antiche cronache, esaltando la “grande bellezza” del rito e della tradizione bizantina. Un secolo prima, ai tempi del patriarca Fozio di Costantinopoli, si erano sviluppate le diatribe proprio sul Credo niceno, con l’accusa ai latini di avere distorto la professione di fede aggiungendo il Filioque, la processione dello Spirito Santo dal Figlio oltre che dal Padre, visto come un tentativo di sottoporre al “potere papista” anche la libera diffusione dei doni dello Spirito, in secoli di monachesimo come principale espressione del corpo ecclesiale.

I “nuovi cristiani” della Rus’ di Kiev non ereditarono le sottigliezze dogmatiche del confronto tra bizantini e latini, e nelle antiche cronache russe si condannano i latini soltanto con confuse argomentazioni di “riti satanici”, in cui i preti cattolici calpestano le croci e si uniscono con diverse mogli. La polemica sulle formule della fede rimase sullo sfondo, e alla fine dell’XI secolo i russi accolsero con gioia la notizia della traslazione delle spoglie di san Nicola a Bari, il vescovo di Myra di Licia che aveva partecipato secondo tradizione al concilio di Nicea, un evento considerato invece dai greci come uno dei più gravi affronti dei latini nei confronti delle antiche Chiese orientali. Ancora oggi i russi festeggiano il “Nicola di primavera” alla data dell’8/21 maggio, pur riconoscendo che fu un “latrocinio dei latini”, ma di fatto è la festa del santo patrono della Rus’, testimonianza di una fede comune.

Il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev) ha quindi presieduto il 1° giugno (20 maggio secondo il calendario gregoriano) l’anniversario dell’apertura del primo grande concilio nel 325, convocato da Costantino nella speranza di piegare la fede cristiana al sostegno dell’ideologia della divinizzazione dell’imperatore, nei pressi dei cantieri della Nuova Roma in costruzione. Egli ha sottolineato che i 318 vescovi erano giunti a Nicea “da tutte le parti del mondo cristiano”, ovviamente quasi tutti da Oriente, con pochi emissari latini e non certo il vescovo di Roma. Si ricorda l’eresia ariana che “cercava di razionalizzare la fede e trasformare il grande mistero dell’incarnazione in un’astratta teoria filosofica”, e Kirill cita un grande storico russo della Chiesa, Vasilij Bolotov, che spiegava come “il simbolo di Nicea era così preciso che era impossibile interpretarlo in altro modo, si poteva solo accettarlo o rifiutarlo”.

Il patriarca spiega che “la storia della Chiesa non è soltanto una ricerca accademica su avvenimenti del passato e di tradizioni sepolte in un tempo lontano, come pagine ingiallite di un libro polveroso”. Lo studio di questi antichi eventi deve “aiutare a comprendere meglio la vita religiosa contemporanea, distinguendo ciò che è importante da tutto quello che è secondario”. Lo Spirito Santo “insegna alla Chiesa a rispondere alle sfide del proprio tempo con una ragione comunitaria [sobornaja] nel dialogo fraterno”. Ciò che avvenne fin dal primo concilio degli apostoli a Gerusalemme, insiste Kirill, e in quello di Nicea del 325 con la “vittoria dogmatica” sull’eretico Ario, deve essere di esempio “fino alla fine dei tempi”.

E quindi oggi, “quando l’Ortodossia mondiale attraversa un periodo tutt’altro che semplice, serve una profonda comprensione teologica delle problematiche ecclesiali”, e di nuovo è necessario testimoniare la fedeltà alla dottrina apostolica e ai principi canonici che sono “la colonna e il fondamento della verità”, come ricordava il grande teologo Pavel Florenskij, nella “unità di spirito per mezzo del vincolo della pace”, insiste il patriarca citando la lettera di san Paolo agli Efesini (4,3).

Le affermazioni del patriarca Kirill non sorprendono certo per i contenuti, legati alla commemorazione conciliare, ma piuttosto per gli accenni al dialogo ecclesiale in prospettiva universale, che sembrano aprire a una nuova fase delle relazioni tra i cristiani delle diverse confessioni, cattolici compresi. Tre giorni dopo questa relativa “apertura”, forse soltanto per una coincidenza, ha avuto luogo il colloquio telefonico tra il papa Leone XIV e il presidente Vladimir Putin, in cui lo zar ha trasmesso al pontefice gli auguri del patriarca Kirill per l’inizio del suo ministero pastorale, come ha tenuto a comunicare l’ufficio stampa del Cremlino. Il papa stesso ha espresso il desiderio per “la continuazione dell’importante dialogo della Chiesa cattolico-romana con la Chiesa ortodossa russa”, proprio nello spirito conciliare (sobornyj, secondo la versione riportata da Mosca).

Naturalmente, Putin ne ha approfittato per difendere gli interessi dei russi, sottolineando le “violazioni dei diritti dei credenti della Chiesa ortodossa ucraina” legata a Mosca, che si è riunita nei giorni scorsi in assise sinodale, mantenendo di fatto il proprio legame con il patriarcato e sfidando le autorità di Kiev, intenzionate a sopprimere la giurisdizione “ostile” della Chiesa Upz. Il presidente russo ha espresso il desiderio che “la Santa Sede si adoperi attivamente per sostenere la libertà di professione della fede in Ucraina”, anche se in questo caso non si tratta certo di sottigliezze dogmatiche e diverse interpretazioni delle formule conciliari, ma soltanto del carico di inimicizie accumulate nella complessa storia delle relazioni tra gli ortodossi di Mosca e quelli di Kiev.

Nel colloquio, il papa Leone ha ringraziato il patriarca Kirill per “gli auguri affettuosi”, sottolineando che “i valori cristiani comuni possono essere la luce che apre alla ricerca della pace, alla difesa della vita e dell’autentica libertà religiosa”, come ha comunicato il portavoce della Santa Sede, Matteo Bruni. Il richiamo ai valori non è certo pleonastico, essendo la motivazione più insistente con cui la Russia giustifica le proprie iniziative nei confronti dell’Ucraina e dell’intero Occidente, e determina anche una nuova possibilità di dialogo con il successore di papa Francesco, che si concentrava principalmente sugli aspetti umanitari. Con il papa americano i russi sentono di potersi rivolgere a un interlocutore di livello “dogmatico”, indicando le nuove “eresie” dei valori traditi come l’argomento di un nuovo cammino conciliare. Il messaggio trasmesso dal patriarca al pontefice esprime quindi la speranza che le relazioni tra Roma e Mosca “possano svilupparsi sempre di più per testimoniare insieme la fede in Cristo, e la manifestazione all’umanità di una bellezza intramontabile dell’esistenza, fondata sui comandamenti divini”.

Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha aggiunto che “finora il presidente Putin non aveva avuto contati con il papa di Roma, e in questa circostanza ha voluto egli stesso esprimere le sue congratulazione per l’elezione al soglio pontificio”, ringraziando per l’apertura di questa iniziativa “nel tentativo di contribuire alla regolazione del conflitto con l’Ucraina”. Le precedenti mediazioni umanitarie non sono state considerate, e le voci sulla possibile riunione delle delegazioni di Russia e Ucraina in Vaticano appaiono quindi fondate su iniziative diplomatiche più decise e articolate, e non soltanto su voci dei corridoi di potere o dei media internazionali.

Il papa ha chiesto comunque a Putin di “fare un gesto di pace”, che riguardi anzitutto la liberazione dei prigionieri, e lo stesso colloquio telefonico appare come un segno di una possibile svolta nell’infinita sequela di dichiarazioni e incontri senza alcun risultato, suscitati dalla smania di protagonismo del presidente americano Donald Trump, che finora ha permesso soltanto ai contendenti di riorganizzarsi, per rilanciare le rispettive offensive sul campo. Il dialogo sotto lo sguardo della Chiesa ci riporta invece ai tempi degli antichi Concili, dove non mancavano certo le inimicizie anche a livello politico e sociale, in quanto anche allora i dogmi della fede si confrontavano con i principi delle ideologie di potere. Come nel IV secolo, dopo la fine delle persecuzioni, i vescovi d’Oriente e Occidente seppero mostrare agli imperatori una verità più grande di ogni pretesa di dominio, anche oggi le Chiese di Roma, Mosca, Costantinopoli e di tutto il mondo possono testimoniare che esiste una via per la pace tra i popoli, e per ricostruire le civiltà distrutte, come nei secoli antichi e moderni.

 

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