15/12/2023, 12.09
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La battaglia della madre per Nimisha, infermiera cristiana condannata a morte in Yemen

Nei giorni scorsi l'Alta corte di Delhi ha concesso a Prema Kumari di recarsi in Yemen per tentare di liberare la figlia. A causa di una dose elevata di sedativi la donna è accusata di aver ucciso Talal Abdo Mahdi, che l'ha aiutata a fondare una clinica ma le ha poi ritirato il passaporto, impedendole di fuggire. Anche la comunità di origine di Nimisha in Kerala si è mobilitata per la causa.

New Delhi (AsiaNews) - Due giorni fa l’Alta corte di Delhi ha concesso a Prema Kumari il permesso di viaggiare in Yemen, in deroga a un’ordinanza del 2017 che vieta ai cittadini con passaporto indiano di viaggiare nel Paese mediorientale a causa delle scarse condizioni di sicurezza e dell’assenza della presenza diplomatica indiana. Prema dovrà cercare di riportare a casa sua figlia, Nimisha Priya, contrattando il prezzo del sangue con la famiglia dell'uomo che Nimisha è accusata di aver ucciso, un reato per il quale il Consiglio giudiziario supremo dello Yemen l’ha condannata a morte. 

Partita per lo Yemen nel 2008, la ragazza al tempo aveva appena 19 anni e aveva da poco terminato gli studi in infermieristica grazie al sostegno della chiesa locale. Avendo trovato lavoro in un ospedale pubblico della capitale, Sanaa, Nimisha si era rivolta alla madre, che lavorava come collaboratrice domestica, dicendole che i loro giorni di povertà e ristrettezze sarebbero presto finiti. 

Le cose però sono poi andate diversamente. Nel 2011 Nimisha era tornata a casa per sposare Tomy Thomas in un matrimonio organizzato dalla sua famiglia. I novelli sposi tornarono poi in Yemen, dove Thomas trovò lavoro come assistente elettricista. Ma siccome la paga era insufficiente, dopo la nascita di una bambina, Mishal, a dicembre 2012, il padre si trasferì con la figlia a Koshi, dove ora guida un tuk-tuk. Nel frattempo Nimisha aveva deciso di avviare una propria clinica, ma c’era un problema: la legge yemenita imponeva di avere un partner locale, che la donna trovò in Talal Abdo Mahdi, che gestiva un negozio di tessuti nelle vicinanze. Sua moglie aveva partorito nella clinica dove lavorava Nimisha e nel gennaio 2015, quando Nimisha dovette tornare in India per il battesimo di sua figlia, Mahdi andò con lei.

Nimisha e suo marito avevano preso in prestito denaro da amici e familiari, raccogliendo insieme 5 milioni di rupie (60mila dollari) per la clinica. Nimshal, fiduciosa, avviò le pratiche burocratiche anche per il ricongiungimento familiare in Yemen, dove però nel frattempo era scoppiata la guerra civile. Nonostante il governo indiano avesse evacuato 4.600 cittadini, Nimshal decise di restare. "Avevamo investito così tanti soldi nella clinica e lei non poteva semplicemente alzarsi e andarsene," ha raccontato Thomas alla Bbc

Oltre al conflitto, anche con Mahdi le cose hanno cominciato a complicarsi. Secondo i legali dell’infermiera, quando lo yemenita era andato a Kochi con lei, aveva “rubato una fotografia del matrimonio di Nimisha” che ha poi “manipolato per dimostrare di essere sposato con lei”. L’ha inoltre “torturata fisicamente e le ha sottratto tutte le entrate della clinica”. In più occasioni, "l'ha minacciata con una pistola" fino ad arrivare poi a "sequestrarle il passaporto per impedirle di partire". Quando Nimisha si è rivolta alla polizia, gli ufficiali "invece di intraprendere qualsiasi azione contro Mahdi, l'hanno rinchiusa per sei giorni". Si tratta di abusi frequenti nei confronti delle lavoratrici straniere nel Golfo, che spesso non riescono a scappare proprio a causa del ritiro del passaporto da parte dei datori di lavoro arabi.

Nel 2017 i titoli dei giornali recitavano: “Nimisha Priya, infermiera malayali arrestata per aver ucciso il marito e fatto a pezzi il suo corpo nello Yemen”. Fu uno shock per Tomy Thomas. In realtà Nimisha, stanca degli abusi, aveva provato a liberarsi di Mahdi, ma non era sua intenzione ucciderlo, ha spiegato K.R. Subhash Chandran, attivista per i diritti dei migranti e avvocato che rappresenta la madre di Nimisha presso l'Alta Corte di Delhi. “Anche Nimisha è una vittima”, ha commentato. "Mahdi le aveva confiscato il passaporto e lei stava cercando di riaverlo. Quindi ha provato a sedarlo, ma lui è morto perché la quantità di sedativi era troppa". 

Il 13 novembre il Consiglio supremo dello Yemen ha rifiutato il ricorso presentato da Nimisha e confermato la condanna a morte dell’infermiera, concedendo però, secondo quanto previsto dal diritto islamico, che la famiglia della donna paghi alla famiglia di Mahdi il prezzo del sangue, ovvero una cifra in denaro come risarcimento. 

La comunità di origine di Nimisha, consapevole degli abusi e delle violenze che vengono perpetrati nel Golfo nei confronti delle lavoratrici, si è mobilitata per salvarla. Un noto magnate del Kerala, per esempio, ha già stanziato 10 milioni di rupie (112mila dollari) per la causa, sostenuta anche da un collettivo, il “Save Nimisha Priya International Action Council”.

“Andrò in Yemen e cercherò il loro perdono”, ha detto la madre, Prema Kumari, anche lei residente a Kochi. “Mi scuserò e dirò loro: ‘Toglietemi la vita ma per favore risparmiate mia figlia’. Nimisha ha una figlia piccola che ha bisogno di sua madre."

Ma nonostante il permesso concordato dal tribunale della capitale, non sarà un viaggio facile per Prema, che sarà accompagnata da Samuel Jerome, un indiano che lavora come amministratore delegato per una compagnia aerea di Sanaa. L’Alta corte ha chiesto alla madre di Nimisha di depositare una dichiarazione giurata in cui afferma che viaggia a proprio rischio. Sanaa infatti è controllata dai ribelli Houthi, che, sostenuti dall’Iran, combattono contro il governo dello Yemen, la cui sede si trova nella città meridionale di Aden. L’India non riconosce gli Houthi: Prema e Samuel dovranno quindi volare ad Aden e poi affrontare un viaggio di almeno 12 ore di macchina per raggiungere Sanaa e negoziare con la famiglia di Mahdi, in modo che a Nimisha venga concessa la grazia.

 

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