09/12/2025, 12.41
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Mons. Berardi: dai bambini del vicariato d'Arabia doni di pace per Gaza

di Dario Salvi

AsiaNews ha incontrato il presule ad Awali, nella sede del vicariato apostolico del Nord Arabia, in occasione di un reportage nei Paesi del Golfo. Molte le sfide di una Chiesa che “cresce”, dalle catacombe in Arabia Saudita ai riflessi della guerra fra Israele e Hamas nella regione. La solidarietà della popolazione, vicina alle sofferenza degli abitanti della Striscia. 

Manama (AsiaNews) - Una Chiesa che “cresce” nonostante le diversità e le criticità, con caratteristiche diverse nelle sue varie anime: in Bahrein, Kuwait e Qatar vi è una certa “libertà di culto”, pur con differenze e “restrizioni” a seconda del Paese. In Arabia Saudita non è possibile professare altra fede oltre all’islam, ma la speranza è che “vi possano essere dei cambiamenti nel futuro”. Così il vicario apostolico dell’Arabia settentrionale mons. Aldo Berardi, sacerdote dell’Ordine della Santissima Trinità e degli Schiavi di cui è stato vicario generale, racconta il territorio di cui è pastore e guida da quasi tre anni (la nomina è del gennaio 2023). Lo abbiamo incontrato nella sede del vicariato in occasione di un reportage che AsiaNews ha compiuto nei Paesi del Golfo, al termine di una messa celebrata nella cattedrale di Nostra Signora d’Arabia ad Awali, in Bahrein, alla presenza di oltre 160 pellegrini provenienti dall’Italia. L’intervista con mons. Berardi è il primo di una serie di articoli che verranno pubblicati nelle prossime settimane e che toccano anche i temi di attualità a partire dal sanguinoso conflitto nella Striscia, con i suoi riflessi nella regione.  
Di seguito, la prima parte dell’intervista di mons. Berardi ad AsiaNews:

Eccellenza, come sta la Chiesa del Vicariato dell’Arabia settentrionale?
Cresce! È una Chiesa che sta progredendo in numero, speriamo che cresca anche in spiritualità e vocazioni. Dipendiamo molto dalle circostanze politiche o economiche, ma a livello di base sta bene, le celebrazioni sono partecipate, come il catechismo e i sacramenti. A seconda dei Paesi vi sono difficoltà a livello locale, ma la sfida principale è l’unità, mettere assieme fedeli con lingue, tradizioni e riti diversi. 

Osservando da vicino le diverse comunità, dal Kuwait al Bahrein, emerge forte l’elemento della devozione…
La devozione è altissima: i fedeli sono devoti alla Madonna, ai santi, alle feste. Vi è anche un aspetto liturgico che vogliamo sviluppare e, per questo, fra poco accoglieremo due professori del [collegio di] Sant’Anselmo a Roma, per fare in modo che il rito romano sia vissuto con sempre maggiore bellezza. Ciascuna comunità [filippini, indiani, maroniti, etc] porta elementi peculiari della tradizione del proprio Paese e il rischio è diventare una Chiesa “devozionale”, ecco perché negli incontri coi sacerdoti cerchiamo di promuovere una Chiesa radicata nel Vangelo. Dobbiamo essere molto delicati, non dobbiamo togliere, ma promuovere una vita cristiana più profonda. 

Vi è anche l’aspetto dell’inculturazione, perché nasca (o rinasca) una Chiesa d’Arabia?
Sì, abbiamo questa preoccupazione! Ed è per questo che abbiamo celebrato il Giubileo di Sant’Areta [e compagni] e sviluppiamo l’aspetto storico, per ricordare che non siamo solo ospiti per qualche anno di lavoro, poi ripartiamo. Siamo radicati in questa storia e nel suo passato, siamo parte di una lunga tradizione. La domanda è: siamo una Chiesa di passaggio, di migranti sapendo che tutti dopo un certo tempo partono o, al contrario, ci radichiamo nella realtà del Paese? In questa prospettiva è importante approfondire il nostro legame con la storia, la cultura ed è quello che tentiamo di fare. Per me è una preoccupazione, perché dobbiamo non soltanto pregare per il re, per l’emiro come facciamo ogni domenica, ma anche amare il Paese sebbene la componente locale non sia molto aperta ed è difficile ottenere la cittadinanza. Solo piccoli gruppi in Kuwait e Bahrein la possiedono e devono farsi portavoce. 

Mons. Berardi, le chiedo un aggettivo o una caratteristica per descrivere ciascuna delle quattro nazioni che compongono il vicariato. 
In Bahrein, Kuwait e Qatar vi è una certa libertà di culto, pur con differenze e restrizioni a seconda del Paese. In Bahrein una Chiesa tranquilla, aperta. In Kuwait una Chiesa in sofferenza, però è in atto un dialogo sulle prossime leggi sul culto non musulmano e le autorità hanno accettato un incontro ecumenico di tutte le Chiese del Golfo a gennaio 2026. Quella del Qatar è una Chiesa controllata, ma vi è libertà al suo interno. Infine l’Arabia Saudita, in cui non vi è libertà ma speriamo in cambiamenti nel futuro per i cristiani la cui fede è molto profonda e non ha bisogno di muri, perché sono i fedeli stessi a essere Chiesa. 

Non solo per la Chiesa, ma per tutte le società del Golfo sono stati due anni molti complicati, soprattutto per la guerra a Gaza. Come è vissuta nel vicariato?
Tutti i paesi del Golfo, con l’eccezione del Kuwait e del Qatar che non hanno mai voluto avere relazioni, erano sulla strada di un accordo diplomatico ed economico con Israele, soprattutto l’Arabia Saudita che era sul punto di firmare. Poi il conflitto [nella Striscia] ha fermato tutto, coinvolgendo di riflesso anche altre realtà come il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti [Eau, parte del Vicariato dell’Arabia meridionale]. La guerra ha di fatto congelato il quadro. 

E la popolazione come ha reagito?
In questo senso le persone si distinguono dai governi, la gente è più solidale, più pragmatica e si è ribellata contro il trattamento dei palestinesi. Certamente le autorità hanno condannato quanto successo ma sempre con moderazione e prudenza, lasciando aperte possibilità di dialogo.

Che riflessi ha avuto sui fedeli, soprattutto quelli di lingua araba? 
Di grande partecipazione e sofferenza: le messe, soprattutto quelle in lingua araba, sono sempre orientate alla pace. Noi abbiamo anche promosso momenti di preghiera per la pace, abbiamo insistito su questo punto, seguendo le orme di papa Francesco e di papa Leone XIV. Siamo parte dei vescovi latini delle regioni arabe, quindi riceviamo i racconti e le testimonianze delle parrocchie e delle persone… certamente è stato un momento difficile per tutti! Con il patriarca latino di Gerusalemme [il card. Pierbattista Pizzaballa] vi è grande collaborazione, anche per una presenza di sacerdoti di rito latino in lingua araba e abbiamo ricevuto informazioni costanti sulla situazione. 

Gli organi di informazione del Golfo come hanno raccontato la guerra?
I mass media hanno fornito una visione della situazione, al netto delle censure e di sensibilità differenti anche nei rapporti con l’Oriente e l’Occidente. Poi vi è la realtà dei fatti e quella la conosciamo tramite le parrocchie e le persone. Certamente è stato un momento difficile per tutti, che ha riguardato anche la narrazione e i rapporti con la Terra Santa in relazione al conflitto. 

Quali sono state le criticità?
Ad esempio sono emerse sensibilità diverse fra quanti chiedevano di pregare per la Terra Santa e quanti invocavano preghiere solo per i palestinesi. Altri ancora ricordavano le sofferenze patite anche dagli israeliani [per l’attacco di Hamas del 7 ottobre e il nodo degli ostaggi, alcuni dei quali per due anni sequestrati nella Striscia]. Per questo abbiamo deciso di pregare per la Terra Santa nel suo complesso, sebbene fra i gruppi arabi sia sempre rimasta un’attenzione particolare per la popolazione palestinese di Gaza. 

Anche qui il conflitto ha alimentato la polarizzazione?
Dobbiamo ricordare che vi sono cristiani cattolici di lingua ebraica, e dunque che facciamo? Il quadro è difficile, perché a seconda delle decisioni si rischia di scontentare una parte. [Come Chiesa d’Arabia] in questi due anni abbiamo sempre condannato gli eccessi, pur salvaguardando il fattore della neutralità e seguendo con attenzione tutti gli sviluppi. 

Nel marzo scorso avete anche accolto il patriarca Pizzaballa in visita nel vicariato…
Sì, è venuto da noi accogliendo un nostro invito e ha visitato fra gli altri una realtà [King Hamad Global Center for Coexistence and Tolerance in Bahrein, ndr] che opera a favore del dialogo interreligioso e della tolleranza. Il patriarca ha anche celebrato una messa nella cattedrale e tenuto un discorso in cui ha ricordato la necessità di costruire ponti fra comunità. Vi sono poi momenti di confronto durante gli incontri della Conferenza episcopale o contatti di altro genere, in cui ci scambiamo informazioni in particolare sui sacerdoti di origine araba provenienti dal Patriarcato latino Gerusalemme. 

In questi anni avete anche promosso attività o iniziative a favore della popolazione di Gaza?
Certo! Un esempio fra i tanti: i bambini delle nostre parrocchie hanno inviato cartoline per i loro coetanei di Gaza, che io stesso ho consegnato al card. Pizzaballa in occasione del recente incontro della Conferenza episcopale in Giordania. Sono piccoli, ma importanti segni di comunione. 

 

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