26/06/2007, 00.00
ISRAELE - PALESTINA
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Pace lontana: poco sollievo e tanta delusione all’incontro di Sharm el-Sheikh

di Arieh Cohen
La condanna di Hamas, lo scongelamento dei fondi, i prigionieri da liberare sono poca cosa a confronto di una opportunità perduta per Israele: iniziare i negoziati per un trattato di pace fra Olp e Israele. Forse non è detta l’ultima parola, se Usa ed Europa incoraggiano Olmert.

Tel Aviv (AsiaNews) – Sollievo, ma anche tanta delusione caratterizzano i risultati dell’incontro a 4 tenutosi ieri a Sharm el-Sheikh. Il summit ha riunito il re Abdallah di Giordania, il presidente egiziano Hosni Mubarak, Mahmoud Abbas (“Abou Mazen”), presidente  dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), il primo ministro israeliano Ehud Olmert.

Sollievo perché – almeno a giudicare dall’immagine proiettata verso l’esterno – il summit è andato bene. I 4 leader sono apparsi uniti nel condannare il colpo di stato militare di Hamas nella Striscia di Gaza, e unanimi nel ricercare una pace israele-palestinese. Altri elementi positivi, di sollievo, sono l’improvvisa proposta di Olmert di “proporre al suo governo” il rilascio di 250 “prigionieri di Fatah che non abbiano versato sangue; la conferma del riconoscimento israeliano al “governo di emergenza” nominato da Abou Mazen; la promessa di Olmert di “scongelare” i fondi palestinesi provenienti dalle tasse, che Israele aveva sequestrato; la possibilità di studiare altri passi per “rafforzare Abou Mazen”.

Palestinesi: la delusione per i mancati negoziati di pace

Ma c’è anche un’enorme delusione per aver mancato l’occasione di iniziare dei negoziati di pace fra Israele e la Palestina. Abou Mazen – come ha sempre fatto dalla sua elezione a “presidente di tutti i palestinesi” (la definizione è di Olmert) – ha invitato in modo esplicito Israele a far partire  negoziati strutturati verso un trattato di pace. Ehud Olmert ha invece rifiutato – come ha sempre fatto dal momento in cui è divenuto capo del governo.

Uno specialissimo “momento favorevole” è andato così perduto. Che per Israele questo era il momento ideale per dichiarare la sua prontezza a iniziare i negoziati per un trattato di pace, è anche un’idea espressa da Condoleeza Rice, segretario di Stato Usa. Secondo alcuni media israeliani, durante la recente visita di Olmert a Washington, la Rice avrebbe detto che in effetti, le condizioni sul terreno possono non essere favorevoli per l’immediata attuazione del trattato di pace, ma che si potrebbe almeno negoziare il trattato - nel suo quadro e nei suoi principi, senza troppi dettagli, lasciandolo poi “sullo scaffale” -  aspettando l’attuazione per il futuro, quando le condizioni si fossero evolute.

Per la popolazione palestinese – rimasta sotto un’occupazione militare negli ultimi 40 anni - un simile trattato darebbe il segnale evidente  che c’è una prospettiva chiara, una promessa precisa di libertà, su un territorio concreto e definito, se essi stessi riescono a tenere in ordine la loro casa.

Il negoziato sarebbe la carta vincente per Abou Mazen e per la sua organizzazione laica Fatah, nella competizione con l’islamismo di Hamas. Per se stesso, solo stando là “sullo scaffale”, creerebbe le condizioni per la sua effettiva attuazione. Ma il primo ministro Olmert ha rifiutato.

Davanti alla prospettiva di pace e libertà che i negoziati per un trattato potrebbe portare, i “gesti” e le “concessioni” di Israele sono soltanto mezzucci per “tenere a bada” e “ridurre i disturbi” a una situazione per loro familiare negli ultimi 40 anni. Come hanno subito espresso i palestinesi, trasferire i fondi delle tasse non è un dono o un atto di generosità: esso è soltanto un trasferire ciò che secondo gli accordi internazionali appartiene in ogni caso all’Autorità palestinese (Ap). Ma il governo israeliano ha deciso giorni fa che perfino questo gesto deve avvenire solo gradualmente.

I prigionieri che verranno rilasciati, con ogni probabilità, saranno quelli di minore importanza: ladruncoli, vecchi, malati, alcune donne e bambini, gente che magari doveva presto uscire di prigione. Non si parla di figure importanti come Marwan Barghouti, che per Fatah rimane la speranza maggiore per riguadagnare il sostegno popolare. In ogni caso, nella misura in cui la West Bank rimane sotto occupazione militare, tutti questi prigionieri potranno essere di nuovo incarcerati

Altri “gesti”, come rimuovere alcune barriere che impediscono i palestinesi a viaggiare attraverso la West Bank, mancano di stabilità: ogni “barriera” può essere rimessa al suo posto in ogni momento.

E se Israele permette maggiori armamenti e equipaggiamenti per l’Ap, ciò dà all’opposizione maggior forza nel giudicare Abou Mazen e le forze di sicurezza di Fatah come una versione palestinese dell’ “Esercito del Libano sud”, un gruppo di milizie reclutate localmente che hanno collaborato con le forze armate israeliane nel controllo del sud Libano fino al 2000.

Forse per un certo tempo tutto questo potrà andare avanti, e possiamo sperare che la West Bank possa – forse – gioire di un periodo di una qualche relativa tranquillità. Ma a lungo termine ciò non sarà efficace. Lo mostra la storia recente, lo suggerisce il buon senso: continuare l’occupazione e la colonizzazione dei Territori è una ricetta sicura per un futuro di rivolta, violenza, caos.

Israele: la scelta per la pace è troppo dura

Va detto che per Olmert, imbarcarsi in negoziati per un trattato di pace è una scelta straordinariamente dura, difficilissima, perchè mette in questione il futuro di circa 400 mila coloni israeliani (su 7 milioni di abitanti).L’enorme rischio è che vi siano terribili conflitti interni ad Israele, scontri ideologici e forse perfino rivolte armate da parte degli estremisti di estrema destra. Il trauma creatosi con il rimpatrio di soli 8 mila coloni dalla Striscia di Gaza nell’estate del 2005 potrebbe moltiplicarsi in modo esponenziale.

Anche procurarsi una maggioranza parlamentare a sostegno di un trattato di pace sembra un compito sovrumano. Non la mancanza di buona volontà o di buone intenzioni, ma di una maggioranza parlamentare è la vera causa che dal 2001 ha portato i governi israeliani a rifiutare sempre di prendere in considerazione ogni iniziativa di pace. Nell’estate del 2000, Ehud Barak, con il suo modo un po’ goffo, aveva cercato qualcosa di simile, ma il suo campo si ridusse con la più piccola base parlamentare che un primo ministro abbia mai avuto in Israele.

Per questo sembra più facile “tenere a bada” il conflitto, smorzare le fiamme, ridurre la pressione, attendere e sperare. Che cosa? Una soluzione magica in un futuro indeterminato? Certo, detto così sembra proprio la cosa più facile da fare. Ma pensiamo alla Francia degli anni ’50 e a cosa avvenne del suo dominio in Algeria. Forse l’analogia non calza a pennello, ma qualcosa di vero c’è.

Noi speriamo che non sia ancora troppo tardi. Forse questa “finestra di opportunità” potrà ancora essere usata. Forse, con un netto incoraggiamento degli Usa e dell’Europa, il governo israeliano attuale potrà ancora giungere alla conclusione che la migliore opzione è rispondere all’invito di Abou Mazen e accordarsi per iniziare un processo per i negoziati di pace, senza altri rimandi. Tale processo è necessario per giungere a un trattato di pace che ponga fine al conflitto e permetta alle due nazioni della Terra Santa di vivere in libertà e sicurezza, costruendo la prosperità di entrambi i popoli.

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