08/09/2004, 00.00
RUSSIA
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Putin, il prigioniero del Caucaso

di Vladimir Rozanskij
Dopo il massacro di Beslan, un esperto analizza dove va la Russia e il mondo occidentale di fronte al terrorismo islamico.

Mosca  (AsiaNews) - Un famoso romanzo di Pushkin narra dei pericoli e delle insidie che i viaggiatori russi si dovevano aspettare, all'inizio del XIX secolo, tra le gole e le asperità di quella terra antica e misteriosa che si erge a guardia meridionale del continente asiatico. Il romanzo si intitola "il prigioniero del Caucaso", e appare quanto mai profetico della condizione in cui si trova attualmente il presidente stesso dello stato russo, Vladimir Putin. La sua ascesa a capo del governo e poi della stessa Federazione russa, cinque anni, fu infatti condizionata dalle esplosioni delle bombe terroristiche che tante vittime fecero non solo nelle terre del sud, ma nella stessa Mosca, dando l'ultima spallata all'ormai barcollante trono di Eltsin e aprendo la strada al nuovo "uomo forte".

Putin venne poi confermato dall'elezione popolare del marzo 2000 in modo talmente plebiscitario, da rendere in seguito pleonastica qualunque consultazione politica o amministrativa: lui stesso e i suoi candidati sono infatti assolutamente imbattibili, con la stessa ferrea probabilità dei candidati unici di sovietica memoria. Il motivo di tale assoluta preminenza è sempre legato alla drammaticità degli eventi: la Russia necessita dell'uso della forza, per resistere all'attacco distruttore delle forze del male. Oggi come allora, il volto disumano del terrore si staglia sul profilo delle montagne caucasiche, e chiama la Russia intera a unirsi e rispondere come un sol uomo, facendo del proprio capo il vessillo della riscossa e della liberazione. Certo, sono sempre di più i cittadini russi che si chiedono come mai, dopo un intero lustro, nulla sia cambiato in questo dramma se non in peggio, passando dalle case distrutte alle città sterminate dell'intera Cecenia, in un conflitto feroce e senza esclusione di colpi da entrambe le parti, fino allo sterminio degli ostaggi del teatro Dubrovka di Mosca, e ora perfino alla strage degli innocenti di Beslan. Si sono avvicendati i generali, i mediatori, i governi-fantoccio a Groznyj con i suoi capi assassinati; in tutto il paese sono state prese misure draconiane al punto da limitare le libertà personali quasi più che nel periodo sovietico; la polizia onnipresente continua a controllare e a usare violenza, se non fisica almeno psicologica, ad ogni viandante dalla pelle appena olivastra, eppure le stazioni della metropolitana continuano ad essere luoghi di paura e di sospetto reciproco, quando non di dolore e di disperazione. Certo, c'è stato l'11 settembre americano, che ha confermato quanto Putin stesso andava dicendo fin dal 1999: c'è un terrorismo internazionale che ha dichiarato guerra ai paesi progrediti, unendo perfino Russia e America in un solo fronte contro il male, come ai tempi del nazismo hitleriano. Passano le guerre in Afghanistan e Iraq, con tutte le loro contraddizioni e interrogativi aperti, che fanno pensare ai russi che, in fondo, il peggio è comunque altrove, e gli americani riescono a fare a loro volta la figura dei cattivi. Eppure lo sgomento non diminuisce, la forza non basta mai a reprimere il terrore, si fa strada ormai un senso di rassegnazione e di angoscia, non si intravede un futuro possibile. Fino a Beslan, il peggio dell'orrore, peggio delle Torri Gemelle, peggio di ogni Iraq e di ogni Palestina, le madri che sparano ai bambini.

La rassegnazione si fa visibile non solo in Russia, ma nel mondo intero, quando più che combattere il terrorismo si cerca ormai di sfruttare la situazione per cercare vantaggi di parte: la Russia contro l'America, la Francia contro l'Inghilterra, l'Occidente contro l'Oriente, la destra contro la sinistra. È forse arrivato il momento di dire chiaramente che non c'è alcuno scontro di civiltà in atto, non c'è la guerra dell'Islam contro il Cristianesimo, dei poveri contro i ricchi o dei moderati contro i radicali: la guerra è solo una tragedia di uomini contro uomini, in cui a perdere sono comunque esseri umani, i più deboli e indifesi. Il Caucaso è un luogo simbolico di questo mondo sconvolto: per quanto si cerchi di schematizzare la realtà, non è possibile tracciare in quella terra la linea degli uni contro gli altri, degli ossetini ortodossi contro gli ingusceti musulmani, piuttosto che dei calmucchi buddisti, degli ebrei daghestani o degli armeni gregoriani. Non c'è il limite tra islam moderato e fondamentalismo internazionale, tra i cosacchi nazionalisti e i georgiani filoamericani. La sociologia e la storia delle religioni diventano dei giochi di società da smazzare sui tavoli verdi della cinica politica internazionale, alzando la posta in palio secondo le convenienze del mercato delle armi, del petrolio o dei campi di papavero, se non delle misere poltrone di qualche parlamento nazionale o continentale. Si inventano le cause per difendere la propria causa, si addossano le colpe per nascondere le proprie menzogne.

Gli assalitori di Putin hanno il grilletto facile, si sa. Un po' come i cowboys americani, non stanno ad aspettare la pistola fumante, preferiscono sparare per primi. Il presidente russo stesso non ha molta fiducia nella ricerca del dialogo e del consenso, è cresciuto alla scuola del pensiero unico e della pace armata; e molti limiti si possono attribuire al suo collega di Washington, non certo un campione della tolleranza multiculturale. Ma è difficile pensare che altri al loro posto saprebbero fare di meglio, soprattutto quelli che predicano il facile pacifismo e l'abbraccio del diverso, quando il problema è la perdita della propria stessa identità nella tragedia di una guerra ormai da tempo iniziata. Non c'è in Russia un'anti-Putin, non c'è nel mondo un anti-Bush capace di porre fine a tutti gli orrori con le strette di mano e gli appelli alla comprensione reciproca. La drammatica impotenza di Putin si è mostrata nel suo discorso alla nazione, il giorno dopo la strage: promettendo l'ennesima riforma dei servizi di sicurezza, egli si è rivolto ai cittadini della Federazione russa chiedendo una prova di compattezza e solidarietà, senza saper più dire in nome di che cosa, senza più sfoggiare nemmeno la rabbia dei primi tempi, quando prometteva che avrebbe sconfitto ogni nemico. La solidarietà tra gli uomini non nasce dalle promesse o dagli ideali, va vissuta giorno dopo giorno, chinando la testa di fronte al dolore, imparando dalle ferite a non giudicare, per non essere giudicati; combattendo il male, da qualunque parte esso venga, senza pretendere di essere l'incarnazione del Bene. Colui che ha affermato di essere tale, infatti, non era un principe della terra: era un Uomo crocifisso.

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