Rohingya tra due fuochi: la repressione in Myanmar e i respingimenti in India
Nel Rakhine, anche l’Arakan Army – oltre alla giunta militare – recluta forzatamente uomini e donne, aggravando il conflitto civile e la crisi umanitaria. Intanto, in fuga verso l’estero, i Rohingya affrontano continui abusi: il governo indiano è accusato di respingimenti illegali in mare e detenzioni arbitrarie, alimentando una crescente stigmatizzazione contro i rifugiati musulmani.
Yangon (AsiaNews/Agenzie) - Non è solo la giunta golpista a cercare di reclutare giovani combattenti da impiegare nella guerra civile che dal 2021 imperversa in Myanmar: di recente anche l’Esercito Arakan (Arakan Army o AA), una delle principali milizie etniche dello Stato Rakhine, ha deciso di impedire gli spostamenti della popolazione per favorirne l’inserimento nei ranghi del gruppo armato.
La Lega unita dell’Arakan (United League of Arakan, ULA), l’ala politica dell’AA che controlla alcuni territori del Rakhine, ha vietato agli uomini dai 18 ai 45 anni e alle donne dai 18 ai 25 anni di lasciare la regione, permettendo gli spostamenti solo a chi è affetto da gravi patologie. L’ULA ha giustificato la misura affermando che serve a proteggere la popolazione dal rischio di essere catturata dalla giunta militare, di calpestare mine antiuomo o di diventare vittime di trafficanti. In realtà già a marzo l’ULA aveva emanato una disposizione di emergenza per consentire all’AA di arruolare adulti fino ai 45 anni, nel tentativo di proteggere il popolo Arakan, aveva specificato l’organizzazione. Per questo motivo, ha continuato l’ULA, le restrizioni agli spostamenti termineranno una volta che lo Stato Rakhine sarà pacificato.
Si tratta di affermazioni controverse: da tempo è documentato come anche l’Arakan Army, al pari dell’esercito, si sia macchiato di gravi violenze nei confronti della popolazione Rohingya, un gruppo etnico apolide, i cui membri professano perlopiù la fede islamica. Diversi testimoni hanno raccontato che sia i militari sia la milizia etnica stanno combattendo per prendere il possesso delle loro terre, generando una crisi umanitaria senza precedenti nella regione.
Anche se l’AA ha ora il controllo di 14 municipalità su 17, sono migliaia i Rohingya che ancora oggi tentano di lasciare il Rakhine per mettersi al sicuro all’estero, dove tuttavia faticano a trovare accoglienza. Si stima che nel 2017, durante le persecuzioni dell’esercito, circa 700mila Rohingya lasciarono il Myanmar per rifugiarsi in Bangladesh. Tuttavia ancora oggi nel campo profughi di Cox’s Bazar i Rohingya che chiedono la fine della violenza nel Rakhine sono spesso presi di mira da gruppi islamici estremisti che combattono contro l’Arakan Army. Chi tenta di fuggire via mare rischia la vita: a inizio mese almeno tre imbarcazioni che stavano cercando di raggiungere Cox’s Bazar si sono ribaltate e sono affondate, provocando la morte di centinaia di profughi. Mentre in Bangladesh si conta oltre un milione di rifugiati Rohingya, i dati delle Nazioni Unite indicano che altre grandi comunità si trovano in Malaysia (con 177mila persone) e in India (83.400), ma anche in Thailandia (81mila).
Tuttavia pure il governo indiano, che da anni ha messo in atto politiche discriminatorie nei confronti dei musulmani, si sta dimostrando sempre più ostile nei confronti dei profughi Rohingya: a inizio mese alcuni profughi sono stati costretti ad abbandonare una nave della marina indiana e a dirigersi verso il Mare delle Andamane, ha denunciato l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che ha chiesto un’indagine sull’episodio. “Sono profondamente preoccupato per quello che appare un palese disprezzo per la vita e la sicurezza di coloro che necessitano di protezione internazionale”, ha dichiarato Tom Andrews, relatore speciale per i diritti umani in Myanmar. “Tali azioni sono un affronto alla decenza umana e rappresentano una grave violazione del principio di non respingimento, un principio fondamentale del diritto internazionale che vieta agli Stati di rimpatriare individui in un territorio in cui la loro vita o la loro libertà sono minacciate”.
Secondo le varie ricostruzioni dei media internazionali, decine di Rohingya che vivevano a Delhi con un regolare permesso da rifugiati sono stati prelevati e trasportati in aereo fino alle isole Andamane e Nicobare. Da lì sarebbero stati trasferiti su una nave della marina indiana, ma, una volta attraversato il Mare delle Andamane, ai rifugiati sarebbero stati forniti giubbotti di salvataggio per raggiungere a nuoto alcune isole appartenenti al Myanmar. I rifugiati sarebbero sopravvissuti alla nuotata fino a riva, ma non si conoscono la loro attuale ubicazione e le loro condizioni, hanno riferito le agenzie Onu.
Nello stesso periodo, tra il 6 e il 9 maggio, mentre l’attenzione internazionale era concentrata sullo scambio di missili tra India e Pakistan, altri 100 rifugiati, tra cui almeno 50 Rohingya, che si trovavano in un centro di detenzione nello Stato di Assam, sono stati trasferiti al confine con il Bangladesh per essere espulsi. Anche l’ubicazione e le condizioni di questo gruppo non sono note. Nonostante l’India non sia firmataria della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, permette l’operato dell’UNHCR sul proprio territorio. La maggior parte dei profughi Rohingya in India si concentra nelle periferie disagiate di Delhi. Da mesi gli attivisti che si occupano della loro difesa denunciano un aumento delle azioni violente nei loro confronti. “Durante le vessazioni della polizia, vengono lanciati insulti razzisti, i rifugiati vengono interrogati per sapere se sono immigrati dal Bangladesh e vengono detenuti arbitrariamente”, ha raccontato a Strait Times la responsabile di una no profit che si occupa di fornire corsi di formazione.
Gli analisti sostengono che i recenti respingimenti operati dall’India rientrano nelle politiche ultra-induiste promosse dal partito al potere, il Bharatiya Janata Party (BJP), da cui proviene il primo ministro Narendra Modi: “La narrazione politica del governo indiano accomuna i rifugiati Rohingya del Myanmar con gli immigrati senza documenti del Bangladesh, che hanno somiglianze religiose e linguistiche ma poco altro, in un unico sottogruppo di immigrati indesiderati”, ha spiegato Angshuman Choudhury, dottore di ricerca presso la National University di Singapore e il King's College di Londra.
Anche in Myanmar i Rohingya vengono chiamati “bengalesi” dalla giunta militare al potere e dall’Arakan Army, un termine che intende rimarcare la loro non appartenenza allo Stato, nonostante siano presenti sul territorio da generazioni. Tra fine aprile e inizio maggio, nell’area del lago Chandola in Gujarat, dove oltre 8mila famiglie sono state sgomberate senza preavviso, le autorità indiane hanno definito i residenti “stranieri” o “Rohingya”, scrive The Wire (testata a cui il governo di Delhi aveva bloccato l’accesso in India durante gli scontri con il Pakistan): sempre più spesso il termine “Rohingya” in India viene associato a generiche minacce alla sicurezza, e quindi utilizzato per stigmatizzare e marginalizzare le comunità musulmane, in particolare quelle che vivono in insediamenti informali, per giustificare la demolizione arbitraria delle loro abitazioni da parte delle autorità.
Foto: UNHCR/Amanda Jufrian
11/08/2022 10:45
08/10/2020 11:26