Spirito patriottico e politica (censurata) della memoria nella Russia putiniana
Si rafforza la censura di pubblicazioni che non rispettano politica statale e proclamazione dei “valori tradizionali”. Una memoria cancellata nel “giogo sovietico”, ogni tentativo di restaurarla confuso e artificioso. Uno degli scopi ideologici del Cremlino è istillare nella popolazione una vera “coscienza russa universale”. Ritorno al passato contenuto fondamentale dello spirito patriottico.
A gennaio di quest’anno era uscito in Russia un libro dal titolo “Alla ricerca dell’antichità russa”, scritto dallo storico trentaseienne Konstantin Pakhaljuk, che dopo una brillante carriera in tante università russe e all’estero è stato infine bollato come “agente straniero” e costretto a riparare in Israele. Il libro è stato subito ritirato dalla vendita dopo la denuncia da parte del movimento ultra-conservatore delle “Quaranta quarantine”, in una fase di censura sempre più rigida di qualunque pubblicazione che non rispetti la politica statale e la proclamazione dei “valori tradizionali”.
Nel caso specifico il libro è stato accusato di “offesa sacrilega alla nostra Patria”, ma alcune copie hanno comunque raggiunto le biblioteche moscovite, e come ai tempi sovietici si diffonde in forma di samizdat, non più ricopiandolo a matita sottobanco, ma riprendendolo con la videocamera del telefono. Il “sacrilegio” dell’autore russo-israeliano consiste in realtà nel tentativo di chiarire le questioni aperte circa la vera identità russa, al di là delle dichiarazioni formali e altisonanti, che sono state molto ripetute in occasione del recente anniversario del Battesimo della Rus’ di Kiev.
Una domanda cruciale riguarda la “politica della memoria” nella provincia, nelle cento regioni della Federazione russa in cui vivono duecento etnie piccole, grandi e piccolissime. Che cosa in verità “ricordano” le regioni della “grande storia russa”, fino a che punto si identificano con essa? Quanto della “russicità” dipende davvero dalla “antichità russa”? Non senza una buona dose di ironia, Pakhaljuk osserva che gli attuali “Z-patrioti”, i sostenitori della guerra della Russia contro il mondo intero, non sono molto propensi ad approfondire le questioni del passato per evitare incertezze e contraddizioni, e quindi questo compito se lo deve assumere un “agente straniero”, più libero da pregiudizi e schemi mentali.
Lo sguardo dello storico sul “neo-medievalismo” russo non vuole essere solo un “ritorno al passato”, lasciandosi trascinare da nostalgie e modelli idealizzati, alla ricerca delle proprie radici. Konstantin intende ampliare la prospettiva, offrendo una visione della storia russa “de-centralizzata”, che tenga conto di tanti fattori diversi, cosa particolarmente importante nel contesto degli eventi attuali. Uno degli elementi che sollecitano molto la sensibilità sia dei vertici che delle varie popolazioni locali, infatti, è la crescita di un nazionalismo russo radicale a fronte dei vari nazionalismi etnici minori, che si esprimono in tante forme differenti.
Pakhaljuk però non intende confrontare l’etnia russa con le altre, ma si concentra proprio sul livello di “russicità” delle regioni propriamente russe, come le 12 regioni della Russia centrale oltre a Mosca, quelle di Smolensk, Rjazan, Velikij Novgorod, Tver, Vladimir, Brjansk, Ivanovo, Kaluga, Orel, Kostroma, Tula e Jaroslavl. Quale di queste è la più russa, considerando che Mosca è sorta dopo quasi tutte le altre? Lo stesso attributo di “russo” viene collocato accanto a figure sociali, professionali o religiose: il contadino russo, il mercante russo, il nobile russo o il russo ortodosso, e molte di queste definizioni si riferiscono propriamente al territorio, alle storie delle città e dei principati, agli oggetti e alle strutture che esprimono l’anima russa, dai vari Cremlini alle sacre icone, ma è come se sfuggisse alla classificazione proprio “l’uomo russo”.
In buona parte questa memoria è stata cancellata nel “giogo sovietico” del XX secolo, e ogni tentativo di restaurarla appare piuttosto confuso e artificioso, tanto che nella retorica di Stato la “identità russa” sembra sovrapporsi principalmente alla “identità sovietica”, come nel caso dello stesso zar-presidente ed ex-capo del Kgb, Vladimir Putin, e perfino del patriarca Kirill (Gundjaev), anch’egli noto ex-agente del Kgb, a cui sembra spesso ispirarsi più che alle tradizioni ecclesiastiche e liturgiche. Spesso si esaltano nelle ricostruzioni storiche i personaggi che dalla provincia si sono distinti a livello nazionale (sovietico, federale), come i grandi della rivoluzione, Vladimir Lenin che proveniva dalla borghesia meridionale di Simbirsk, per non parlare dell’ebreo ucraino Lev Trotskij o del georgiano Josif Stalin. In fondo, gli zar Romanov avevano perso la purezza genetica russa fin dal Settecento, e l’ultimo imperatore Nikolaj II aveva meno di un decimo di sangue russo.
L’identità russa appare in questa retrospettiva come una forma di provincialismo, vista la diversità etnica dei suoi eroi, di cui l’ultimo vero russo proveniente dalle profondità della Siberia fu il monaco auto-chiamato alle vette dello spirito, Grigorij Rasputin, il cui cognome indica “l’incrocio delle vie”, e a cui si lega quello dell’attuale leader, Vladimir Putin, “uomo della strada”. Proprio per questo uno degli scopi ideologici dell’attuale dirigenza del Cremlino è quello di istillare nella popolazione una vera “coscienza russa universale”, superando le divisioni e il senso di marginalità tipico di un popolo disperso su un territorio sempre pieno di insidie, a meno di dominarlo con una proiezione ancora più vasta e senza confini. Il “vero russo” non sopporta di essere escluso o emarginato, ha bisogno di sentirsi sempre “al centro”.
Nell’ultimo decennio sono stati aperti in Russia oltre un centinaio di musei locali, dedicati non solo alla retorica bellica e agli eroi militari locali, ma anche al desiderio di “iscriversi all’antichità russa”, ribadendo a livello regionale l’ansia di superare l’insignificanza nazionale, federale e globale, magari appellandosi a qualche vaga citazione nei manoscritti delle cronache più vetuste. La città nord-occidentale di Pskov, dove a capo della Chiesa fino a due anni fa c’era lo “storico imperiale” Tikhon (Ševkunov), oggi metropolita di Crimea, esalta i 1.100 anni della sua storia iniziata più di cinquanta anni prima del Battesimo di Kiev, basandosi su una citazione di passaggio della Cronaca di Nestor, dove si afferma che la principessa Olga, nonna di Vladimir il Grande, proveniva dalla Pleskova, identificata con la regione di Pskov. Oppure la città di Jaroslavl nella Russia centrale, dove vive oltre mezzo milione di persone, si fonda sulla leggenda del principe Jaroslav il Saggio, figlio di Vladimir, che sconfisse un orso a mani nude.
Queste storie arcaiche e fantasiose in realtà non corrispondono allo sviluppo effettivo di queste città e queste regioni, la cui attività e presenza storica risale al massimo a 5-600 anni fa, poco più della metà del “millennio cristiano”. La stessa Mosca cominciò a imporsi dopo il 1300, e divenne centro imperiale con Ivan il Terribile a metà del Cinquecento, quando non a caso si era diffusa l’ideologia della “Terza Roma”. Proprio questa definizione, forse la più simbolica di quanto si intende con “identità russa”, indica la volontà di risalire indietro nella storia antica fino agli imperi più gloriosi, evidenziando il complesso d’inferiorità e il continuo risentimento dei russi per essere arrivati sulla scena ormai troppo tardi. Come afferma Pakhaljuk, la “antichizzazione artificiale” è la vera chiave di lettura dei russi di oggi, ma anche dei secoli precedenti, la voglia di essere i primi, i più “tradizionali” e originari dei grandi valori della storia, senza voler ammettere di aver ricevuto tutto dagli altri, sia da Occidente che da Oriente.
In questo modo si svuota di significato anche la reale antichità della Russia, testimoniata da importanti monumenti architettonici come nella grande Novgorod, a Pskov e a Vladimir, o davanti allo splendido Cremlino di Nižnij Novgorod affacciato sul Volga, per certi aspetti più spettacolare anche di quello costruito sulla Moscova a fine Quattrocento nella capitale. Non servono i “miti dorati” per comprendere davvero il valore di queste testimonianze storiche, per non parlare di chiese e cattedrali risalenti all’inizio del secondo millennio, o di quelle erette a Mosca a imitazione dei palazzi veneziani, da architetti e manovali italiani. La vera identità storica si comprende nelle relazioni tra i tanti centri provinciali, da quelli della parte europea più antica fino alle città asiatiche della Siberia, con la dimensione imperiale anch’essa mutevole, dall’antico principato di Kiev (già allora la più estesa nazione in Europa) alla Mosca-Terza Roma e all’impero di San Pietroburgo, imitazione delle capitali europee più prestigiose.
In tutti i musei locali, e nelle narrative sovrapposte della propaganda, si diffonde il culto della “Russia-che-abbiamo-perso”, sublimando con le epoche lontane da rigenerare anche la nostalgia per la grandezza sovietica, vero substrato della coscienza dei russi attuali. E questo considerando che proprio la rivoluzione bolscevica è stato un fenomeno di cancellazione della memoria, in nome di una “ideologia importata dall’Occidente”, come ricorda sempre il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev). Il ritorno al passato è il contenuto fondamentale dello spirito patriottico, che giustifica le repressioni contro gli “agenti stranieri” e la guerra contro la distruzione dei “valori tradizionali”, per esaltare un mondo russo che forse non è mai esistito, almeno non come viene raccontato ai propri infantili cittadini, nelle favole della buonanotte della propaganda di Stato.
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16/09/2023 09:00
05/08/2023 09:30