31/10/2023, 09.48
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Venti di guerra fra Israele e Hamas soffiano sulla crisi (economica) in Medio oriente

Alle vittime civili del conflitto nella Striscia si sommano i timori per le economie regionali. Si guarda ai prezzi del petrolio e a ripercussioni nel settore energetico. Previsto un brusco calo del Pil per l’intera area Mena. Banca mondiale: i riflessi sull’occupazione in un’area in cui 300 milioni di giovani bussano alla porta del mercato del lavoro entro il 2050. 

 

Milano (AsiaNews) - La guerra fra Israele e Hamas a Gaza, col suo già devastante carico di vite e il rischio di un’estensione del conflitto al di fuori della Striscia in tutto il Medio oriente e oltre, preoccupa la comunità internazionale. Tuttavia se i morti - in particolare fra civili, moltissimi i bambini - rappresentano il primo elemento di attenzione, e preoccupazione, vi è pure un fattore economico da tenere in considerazione. Le ripercussioni sulle finanze regionali e globali dell’escalation militare in risposta all’attacco terrorista - che ha colpito popolazione e militari, cui sono seguiti massicci bombardamenti e l’attacco di terra a Gaza dell’esercito - sono già evidenti e determinano stime al ribasso della crescita. Un ulteriore campanello di allarme, in un quadro di profonda incertezza. “La guerra fra Israele e Hamas - ha detto il presidente della Banca mondiale Ajay Banga a una conferenza in Arabia Saudita - potrebbe infliggere un grave colpo allo sviluppo economico globale”, aggiungendo che “ci troviamo in una congiuntura molto pericolosa”. 

Ripercussioni economiche

Su scala globale, l’energia è la questione più importante nel breve periodo. I prezzi del petrolio, già elevati al momento dell’attacco a Israele, sono passibili di ulteriori aumenti legati a timori di interruzioni nell’approvvigionamento, soprattutto se la crisi coinvolge l’Iran o riduce la produzione irachena. Gli shock sull’offerta di greggio avrebbero un impatto sull’attività economica dei Paesi importatori di energia e sull’economia mondiale in genere: secondo stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), un aumento del 10% potrebbe pesare sulla crescita globale di 0,15 punti e aumentare l’inflazione a livello dello 0,4%.

Va detto che l’economia israeliana appare al momento solida e ha dimostrato una notevole resistenza a periodi di guerra, oltre a vantare una posizione creditoria netta verso l’estero superiore al 30% del Pil e riserve valutarie superiori a 200 miliardi di dollari. Ma sul dato generale pesano altri fattori fra cui l’impatto della mobilitazione generale, la riduzione del turismo e l’effetto delle crescenti preoccupazioni per la sicurezza su spesa pubblica, investimenti e capitale. Lo shekel, indebolito nei mesi scorsi dalla controversia sulla Corte Suprema, si è deprezzato di circa il 5% da inizio ottobre e la Banca di Israele ha adottato misure per stabilizzare i mercati. E altri Paesi si trovano in una situazione più debole: il Libano è impantanato in una crisi finanziaria di estrema gravità, con calo del Pil superiore al 50% dal 2018. La Giordania ha un debito estero elevato (le passività nette superano il 110% del Pil) e il persistere di conflitti potrebbe ripercuotersi su stabilità interna e turismo, importante fonte di valuta estera. Anche l’Egitto dipende dai flussi turistici per le entrate in valuta forte e si trova ad affrontare prospettive macroeconomiche difficili.

Venti di guerra sulla crisi

I venti di guerra che imperversano a Gaza si sommano a una situazione generale di crisi del Medio oriente e Nord Africa (Mena) presente già prima del 7 ottobre, con un brusco calo della crescita per l’anno in corso. A certificarlo è un rapporto pubblicato a inizio mese dalla Banca mondiale, secondo cui il Pil passa dal 6% del 2022 all’1,9% del 2023 con un calo maggiore per le nazioni produttrici ed esportatrici di petrolio. Una congiuntura critica, che rischia di ripercuotersi sul mercato del lavoro, con un marcato aumento della disoccupazione in molti settori e una incidenza doppia rispetto ad altre aree o economie emergenti. L’istituto prevede inoltre che la crescita del Pil reale nell’anno in corso sarà attorno all’1%, anche qui in netto calo rispetto al 7,3% del 2022 a causa di una ridotta produzione di petrolio e per la consistente riduzione dei prezzi del greggio. 

Nelle settimane precedenti il conflitto a Gaza pesavano già sugli indici l’inasprimento delle condizioni finanziarie globali e l’elevata inflazione, che rappresentavano un limite consistente all’attività economica nei Paesi importatori di petrolio in Medio oriente e Nord Africa. Qui la crescita è prevista nell’ordine del 3,6% nel 2023, in calo rispetto al 4,9% del 2022. Gli esperti della Banca mondiale prevedono inoltre che in tutta la regione vi saranno criticità, con il dato relativo alla crescita del reddito pro-capite che passa dal 4,3% del 2022 ad un misero 0,4% di quest’anno. Entro la fine del 2023 solo otto delle 15 economie Mena potrebbero tornare ai livelli di Pil pro capite (reale, che comporta aggiustamenti che includono i livelli di inflazione) pre-pandemia Covid-19.

I riflessi sulla disoccupazione

“Se la regione cresce lentamente, come faranno i 300 milioni di giovani che busseranno alla porta del mercato del lavoro entro il 2050 a trovare lavoro con dignità?” si domanda Ferid Belhaj, vice-presidente Mena della Banca mondiale. Ed è qui, proprio in tema di occupazione, che si gioca una delle partite più importanti perché una ulteriore mancanza di lavoro e opportunità potrebbe innescare nuove proteste, alimentare violenze o accelerare il fenomeno migratorio con conseguenze globali. “Senza adeguate riforme politiche, potremmo inavvertitamente peggiorare le sfide strutturali - prosegue l’alto funzionario - che i mercati del lavoro della regione devono affrontare” e per questo ricorda che “il momento delle riforme è adesso”.

Timori e preoccupazioni condivise dal capo economista per il Medio oriente e il Nord Africa dell’istituto Roberta Gatti, secondo cui la regione “è unica” rispetto al resto del mondo proprio nella “reazione della disoccupazione alle flessioni economiche”. Il dato “è quasi il doppio”, avverte, se confrontato ad “altri mercati emergenti ed economie in via di sviluppo”. Cinque milioni di persone in Medio Oriente e Africa hanno perso il lavoro a causa degli shock economici dal 2020: pandemia, guerra russa in Ucraina fino alla crisi attuale in Terra Santa per citarne alcuni. A questo, spiega, si sovrappongono gli effetti di una inflazione sempre più elevata, i cui contraccolpi sono già visibili nella corsa dei prezzi al consumo, anche beni di prima necessità. “Per questi cinque milioni di persone - avverte - sarà più difficile trovare un lavoro in futuro”, dovranno fare affidamento su impieghi saltuari o poco qualificati e “non saranno in grado di mantenere le famiglie”. 

Sempre in tema di disoccupazione, gli esperti segnalano una inversione di tendenza nel mercato del lavoro femminile in Arabia Saudita dove si registra una crescita di quote rosa che, a dispetto delle riforme, resta però ben al di sotto della media globale. Come emerge dai dati dell’Arab Gulf States Institute (Agsiw), ente con sede a Washington, negli ultimi sei anni il tasso di partecipazione femminile è raddoppiato, passando dal 17,5% al 35%. In una realtà ad elevato reddito e istruzione, l’occupazione femminile è aumentata del 45% e il tasso di disoccupazione è passato dal 33% a poco meno del 16%. Tuttavia, avvertono gli studiosi, resta ancora molto da fare per raggiungere standard che sono ormai la norma altrove nel mondo, mentre i ruoli di comando restano appannaggio degli uomini. “Nonostante i progressi, il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro - avverte Tim Callen di Agsiw - è ancora ben al di sotto della media globale, che supera di poco il 50%”. E il dato sulla disoccupazione femminile, conclude, è “tre volte superiore a quello maschile”. 

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