23/06/2023, 11.50
TURCHIA
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Vicario d’Anatolia: nel dopo-terremoto la comunità cristiana ‘a forte rischio’

Mons. Bizzeti racconta una situazione generale di “grande disperazione” e di forte bisogno, i fedeli rimasti ad Antiochia si contano “sulle dita di due mani”. Alla Chiesa in Occidente il compito di ricordare a governi e istituzioni il dovere di “salvaguardare” la presenza dei cristiani. Gli interventi in atto della Caritas e i programmi di lungo periodo, fra cui scolarizzazione e sostegno psicologico. 

Iskenderun (AsiaNews) - La comunità cristiana delle zone colpite dal sisma “è a forte rischio”, per una situazione generale di “grande disperazione”: i fedeli rimasti ad Antiochia, cuore della devastazione, si contano “sulle dita di due mani” e oltre alle necessità quotidiane vi è da ricostruire un tessuto sociale “partendo dalla casa, dalla scuola e dal lavoro” perché “in caso contrario le persone se ne vanno”. È quanto racconta ad AsiaNews mons. Paolo Bizzeti, vicario d’Anatolia, regione che ancora oggi, a oltre quattro mesi, mostra le devastanti ferite inferte dal drammatico terremoto del 6 febbraio. Dal 13 al 15 giugno a Iskenderun il vicariato ha organizzato un incontro per discutere della situazione e delineare gli interventi e le attività delle prossime settimane, in un quadro che resta di grande bisogno. 

“I cristiani - racconta mons. Bizzeti - non sono diversi dalle altre minoranze, risentono dei problemi di tutti: la casa, il lavoro, la scuola, la quotidianità, la vita ordinaria. Il tutto richiederà anni per essere sistemato. Ancora oggi è difficile dire cosa si può fare dall’esterno per aiutare, ma il punto centrale resta quello di mantenere alta l’attenzione, ricordare che in questi luoghi vi sono le radici della cristianità. E le Chiese in Occidente - aggiunge - dovrebbero sensibilizzare e interessare i loro governi, perché abbiano a cuore e contribuiscano a conservare la presenza cristiana in Medio oriente. Sto parlando di politiche serie, da mettere in agenda”.

Il terremoto di magnitudo 7,7 del 6 febbraio scorso resta una ferita ancora aperta per la Turchia, con una situazione di grave emergenza ancora oggi attiva in 11 grandi centri nel sud e nel sud-est del Paese e oltre-confine, nel nord della Siria. Il bilancio delle vittime ha superato quota 50mila (oltre alle 8mila e più riferite da Damasco), ma i dati non sono definitivi visto il ritrovamento di altri due cadaveri nei giorni scorsi sotto le macerie in smaltimento di un edificio ad Adıyaman. I palazzi e le case crollate o gravemente danneggiate sono più di 160mila, gli sfollati a distanza di quattro mesi superano i due milioni, per una emergenza senza fine. A questo si sommano le persone scomparse, come ha sottolineato in una interrogazione parlamentare la deputata del Partito verde e di sinistra Tülay Hatimoğulları che invoca chiarezza sul numero dei dispersi. 

Nella prima fase dell’emergenza il vicariato d’Anatolia e Caritas Turchia hanno curato la distribuzione di acqua, viveri, coperte, abiti, medicinali, detersivi, materiali per la pulizia nella sede dell’episcopio a Iskenderun, a domicilio, nelle strade e nei primi accampamenti. A questo si sono aggiunte le tende-scuola per garantire un minimo di scolarizzazione e dare un contributo allo sviluppo dei ragazzi in un contesto di grave bisogno. In un secondo momento gli interventi della Chiesa hanno riguardato la fornitura di tende, attrezzature, cucine da campo, bagni-doccia, container e utensili per la mensa, ventilatori e frigoriferi. Nei primi tre mesi sono state assistite quasi 55mila famiglie con beni di prima necessità, cui si sommano aiuto psicologico per giovani e adulti, sostegno all’istruzione e cure mediche.

Nella regione di Hatay, la più colpita, “buona parte della popolazione è sfollata in altre città e non prevede di rientrare a breve” racconta il vicario d’Anatolia. “Molti desiderano tornare - prosegue - ma non vi sono stime affidabili sui tempi. Nella regione di Antiochia non è possibile ricostruire, le persone si stanno predisponendo a restare a lungo lontano dai luoghi in cui vivevano. Altri ancora sono rimasti nell’area e vivono nelle tendopoli o nelle baraccopoli, necessitano di tutto a cominciare dai viveri e di impianti di ventilazione e per rinfrescare, perché con l’avvento della stazione calda all’interno delle tende il clima è rovente. Vi è poi il problema di conservare il cibo, ed è su questi interventi che si sta concentrando oggi l’attività della Caritas”. 

A una prima stima, nell’area più colpita è rimasto il 20% circa della popolazione originaria e la Chiesa si è adoperata nell’ultimo periodo per fornire attrezzature a operai e artigiani, perché possano ricominciare a lavorare. E ancora vacche, capre e pecore agli allevatori, il necessario alle donne che un tempo lavoravano a maglia in casa fornendo prodotti alle ditte del nord della Turchia. “Strumenti e attrezzature per riprendere il lavoro - afferma mons. Bizzeti - e in quest’ottica il contributo del micro-credito è fondamentale”. 

I tempi sono destinati a essere “inevitabilmente lunghi”, avverte, perché ogni passo è sotto il controllo governativo “e non si può fare nulla senza i permessi” rilasciati al termine di un complesso - ancor più in una situazione di emergenza - iter burocratico. Infine i bambini, i giovani e la scuola, che restano “una delle categorie più colpite” dopo le sofferenze e i mesi perduti a causa della pandemia di Covid-19. “Questa generazione - conclude mons. Bizzeti - è destinata ad avere una esperienza della scuola molto precaria, cui si sommano i traumi psicologici dell’emergenza sanitaria prima e di quella terremoto poi. Tuttavia, il tempo e le risorse sono poche anche per pensare allo psicologo ed è una lotta costante per la sopravvivenza”.

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