07/03/2023, 12.44
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Yemen: un popolo abbandonato in un conflitto catastrofico e senza fine

di Dario Salvi

Nei giorni scorsi l’Onu ha lanciato una richiesta di aiuti ai Paesi donatori di 4,5 miliardi di euro. Un appello analogo nel 2022 aveva portato alla raccolta di metà dei fondi necessari. Intanto sul terreno si continua a combattere, la tregua appare lontana e la crisi economica si fa sempre più grave. Bambini soldato, Pil crollato e risorse col contagocce alimentano la miseria. 

Milano (AsiaNews) - Un piano di aiuti da quasi 4,5 miliardi di euro dai Paesi donatori, per cercare di risollevare una nazione martoriata da anni di guerra, dalla povertà, dall’indifferenza della comunità internazionale mentre sul terreno i civili continuano a morire. E i bambini sfruttati come arma di lotta, in una campagna incessante di reclutamento che nessuna politica di sensibilizzazione è riuscita a contrastare. La crisi nello Yemen, dove si combatte una guerra tanto sanguinosa quanto dimenticata, non sembra finire e anche gli sforzi Onu per giungere a un accordo non hanno sinora sortito effetto alcuno. Gli Houthi, milizie ribelli vicine all’Iran, continuano a combattere contro le forze governative riconosciute dalla comunità internazionale e sostenute dalla coalizione araba a guida saudita, accusata in passato per i suoi raid che hanno colpito vittime innocenti, anche minori, scuole e ospedali. Se anche gli sforzi di mediazione - che finora hanno prodotto una fragile tregua durata alcuni mesi lo scorso anno - dovessero portare frutti, la popolazione è comunque destinata a soffrire negli anni a venire per le conseguenze del conflitto e del disastro umanitario. 

Una crisi senza uscita

Nell’aprile dello scorso anno erano emersi segnali di speranza, allorché l’inviato speciale delle Nazioni Unite Hans Grundberg - in carica dal settembre 2021 - aveva strappato alle parti una tregua di due mesi, rinnovata per un periodo ulteriore, e l’avvio di negoziati per un accordo di lungo termine. Sul fronte governativo, Riyadh e Abu Dhabi avevano rimpiazzato la decennale leadership del presidente Abdu Rabbu Mansur Hadi con un consiglio (Plc) di otto membri. Ciononostante, la tregua è definitivamente spirata il 2 ottobre scorso e non è più stata rinnovata, mentre le parti hanno continuato a combattere scambiandosi accuse reciproche per il fallimento dei negoziati. Ciò che resta è un conflitto che dal 2014 ha fatto registrare quasi 400mila vittime e secondo l’Onu ha provocato la “peggiore crisi umanitaria al mondo”, sulla quale il Covid-19 ha sortito effetti “devastanti”. Milioni di persone sono sull’orlo della fame e i bambini - 11mila morti nel conflitto - subiranno le conseguenze per decenni. Gli sfollati interni sono oltre tre milioni, la maggior parte vive in condizioni di miseria, fame e soggetta a epidemie, non ultima quella di colera.

Negli ultimi otto anni la situazione sul piano militare è rimasta sostanzialmente invariata. Gli Houthi, meglio noti come Ansar Allah (Aa), governano due terzi della popolazione e controllano un terzo del territorio. Il fronte più caldo è quello del governatorato di Marib, dove i ribelli filo-iraniani hanno lanciato una offensiva che si è però scontrata con la resistenza dei governativi. Per mantenere il potere gli Houthi non esitano a usare un dominio autoritario, che non rispetta alcun diritto umano e reprime il dissenso mediante prigionia, esecuzioni - anche di minori, spesso usati ancora oggi come bambini soldato, come avviene pure sul fronte opposto - e processi sommari. Non è prevista libertà di espressione, i giornalisti sono arrestati e puniti, alle donne vengono limitati diritti e libertà, compreso l’obbligo del “guardiano” maschile o di un “codice di abbigliamento”. 

Riyadh e Abu Dhabi, interessi divergenti

Le condizioni non sono migliori sul fronte opposto, dove in questi anni si è registrata la frattura all’interno dell’alleanza araba fra sauditi ed Emirati Arabi Uniti per interessi divergenti e per il sostegno al movimento separatista nel sud. Le mire contrapposte hanno avuto pesanti conseguenze anche sul terreno del conflitto, sul quale ha giocato un ruolo importante pure il progressivo disimpegno degli Stati Uniti già sotto la presidenza del repubblicano Donald Trump, poi proseguito col successore democratico Joe Biden. Uno dei segnali che hanno marcato questo passaggio è l’attacco Houthi ad Abu Dhabi nel gennaio 2022, un colpo al cuore che ha spinto sauditi ed emirati all’autodifesa, sapendo di non poter più contare sull’ombrello protettivo di Washington. Una svolta che ha trovato ulteriori conferme all’indomani dei molteplici attacchi a colpi di missili e droni dal territorio controllato dai ribelli filo-iraniani in direzione saudita, che hanno centrato in alcuni casi installazioni petrolifere dall’importanza strategica per Riyadh. Nel frattempo si è assistito alla creazione del “consiglio” presidenziale per il periodo di transizione (il Plc), che ha come obiettivo quello di garantire un fronte comune fra gli interessi di Abu Dhabi e Riyadh in contrapposizione agli Houthi. Tuttavia, in questi mesi anch’esso si è fatto notare per divisioni, fazioni contrapposte e interessi divergenti che non aiutano in un’ottica di dialogo e mediazione. 

Le conseguenze della guerra

Anni di violenze e tensioni hanno causato immani sofferenze ad una popolazione ormai allo stremo da un punto di vista economico, sociale e umano. Ad aggravare il bilancio vi è la situazione di blocco di alcuni fra i principali porti del Paese, come quello di Hodeida dove si sono concentrate pesanti battaglie, che finiscono per paralizzare i commerci, i rifornimenti e gli stessi aiuti. Uno dei pochi attori che sembrano aver rafforzato la propria presenza, e i propri interessi, in questi ultimi anni è la Cina che guarda con grande attenzione ad Aden e dintorni, nell’ottica di un ulteriore rafforzamento della “Via della Seta”. Con la guerra il Pil è crollato del 50%, mentre il reddito medio pro-capite annuo è di circa 600 euro, meno della metà del valore della fase pre-bellica. La crisi finanziaria ha portato come conseguenza anche il blocco nel pagamento dei salari a circa 1,2 milioni di dipendenti pubblici, molti dei quali hanno ricevuto paghe della metà del valore a distanza di diversi mesi fra loro. Ai danni economici si sommano infine quelli ambientali, con una serie di disastri naturali nella storia recente che hanno provocato gravi conseguenze, in particolare le alluvioni di vasta scala che hanno sommerso interi territori. E la tendenza, avvertono gli esperti, pare destinata a peggiorare.

La maggioranza degli yemeniti è ridotta allo stremo, alla disperazione, alla miseria e se anche si dovesse raggiungere - cosa affatto scontata - un accordo di pace nel breve o medio periodo, la popolazione resterà intrappolata fra devastazione socio-economica e clima ostile. Nei mesi scorsi l’inviato Onu Grundberg ha moltiplicato gli sforzi e cercato di riavvicinare i fronti con viaggi regolari a Riyadh, in Oman, negli Emirati e pure a Mosca. Un primo passo può essere rappresentato dall’avvio di negoziati diretti fra Houthi e Arabia Saudita, un riconoscimento e una legittimazione cui gli stessi ribelli filo-Teheran ambivano da tempo dopo i contatti segreti degli anni passati. Tutto questo, senza però oscurare - o by-passare - il ruolo del consiglio che oggi rappresenta pur sempre, nel complicato puzzle yemenita, la parte riconosciuta a livello internazionale. La richiesta di aiuti per oltre 4 miliardi dell’Onu per il 2023 è un segnale che la crisi umanitaria si fa sempre più profonda, ma le risorse esigue e i rubinetti si prosciugano, sommandosi ad altre crisi globali non ultima il terremoto in Siria e Turchia. Un appello per un importo simile nel 2022 ha raggiunto solo il 52% del target prefissato, nel frattempo il popolo continua a soffrire e i suoi leader sembrano sempre più distanti, e meno interessati, al raggiungimento di un compromesso.

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