03/02/2016, 08.56
ARABIA SAUDITA - PALESTINA
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Ashraf Fayadh, poeta palestinese, evita il patibolo di Riyadh. Dovrà scontare otto anni, più 800 frustrate

Un tribunale saudita aveva disposto la pena capitale per apostasia per l'intellettuale di origini palestinesi. Nelle scorse settimane una mobilitazione internazionale aveva chiesto la sua assoluzione. Egli ha sempre negato le accuse, rivendicando la propria innocenza. Intanto non si ferma il boia: ieri giustiziate due persone. Sono 58 dall’inizio dell’anno. 

Riyadh (AsiaNews/Agenzie) - Un tribunale saudita ha annullato la pena di morte a carico del poeta palestinese Ashraf Fayadh, condannato in primo grado per apostasia. Egli dovrà scontare otto anni di prigione e 800 frustate, che verranno comminate in 16 riprese. Il precedente verdetto aveva sollevato una ondata di proteste internazionale; nelle ultime settimane centinaia di scrittori, autori, intellettuali e artisti hanno lanciato iniziative per la sua liberazione. 

Abdul Rahman al-Lahim, avvocato del poeta palestinese, riferisce che il tribunale di Abha, nel sud-ovest del Paese, ha anche deciso che il suo assistito dovrà sottoscrivere una dichiarazione di pentimento, che verrà pubblicata sui media ufficiali. 

In realtà Fayadh, 35 anni, ha sempre negato con forza i capi di imputazione, affermando che un altro uomo ha fabbricato false accuse ai suoi danni per ottenerne la condanna. Per questo la difesa è già pronta a presentare un nuovo ricorso e chiedere il rilascio - e la piena assoluzione - dell’assistito.

Il poeta di origini palestinesi - è nato in Arabia Saudita da genitori rifugiati - è stato arrestato nell’agosto del 2013, dopo che un cittadino saudita lo ha accusato di fomentare l’ateismo e diffondere idee blasfeme. Viene rilasciato il giorno successivo, ma arrestato di nuovo nel gennaio 2014 e incriminato per apostasia. 

Attivisti e ong internazionali affermano che le accuse sono legate alla sua attività artistica e alla sua collezione di poesie - Instructions Within, pubblicata nel 2008 - in cui secondo l’accusa mette in dubbio i dettami della religione e diffonde idee legate all’ateismo. 

Le autorità di Riyadh lo hanno anche incriminato per aver violato la legge contro il crimine in rete scattando e conservando foto di donne riprese in pubblico sul suo cellulare. La sentenza di condanna a morte risale al 17 novembre 2015. 

L’Arabia Saudita applica una visione rigida della legge islamica, che prevede la pena di morte per un gran numero di reati fra cui omicidio, traffico di droga, rapina a mano armata, stupro e apostasia. Lo scorso anno il boia ha giustiziato almeno 153 persone; quest’anno le esecuzioni sembrano essere in aumento, considerando che dal primo gennaio sono state giustiziate un totale di 58 persone. Le ultime due decapitazioni sono avvenute ieri, a carico di un cittadino saudita e di un immigrato etiope, condannati a morte per omicidio. 

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