17/05/2008, 00.00
LIBANO - MEDIO ORIENTE
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Dialoghi interlibanesi a Doha : un “terreno neutro” ?

di Fady Noun
L’incontro nel Qatar fra tutti i partiti politici libanesi avviene dopo che il Paese ha ancora una volta rischiato la guerra civile. Davanti alle pressioni regionali e internazionali, l’unica via di uscita è salvaguardare una “neutralità positiva”, salvando la vocazione del Libano alla convivenza. L’analisi di un esperto.

Beirut (AsiaNews) – A partire da oggi i principali responsabili politici del Libano sono riuniti a Doha, capitale del Qatar, per discutere dell’avvenire della loro democrazia.

Un incontro strano? Perché in Qatar? Il punto è che con  colpo di genio diplomatico, la Lega Araba ha trovato alla fine un “terreno neutro” dove tale avvenire poteva essere discusso, lontano dagli occhi indiscreti degli osservatori siriano, iraniano, saudita o delle potenze regionali e mondiali che si dividono e dividono questo paese così bello, grande quanto un’isola greca.

La conferenza di Doha avviene all’indomani di una pesante azione militare degli Hezbollah contro i partiti rivali – soprattutto la corrente del Futuro di Saad Hariri e il Partito socialista progressista di Walid Jumblatt – che ha fatto 65 morti e 200 feriti.

L’operazione è stata giustificata per andare contro ad una decisione del governo ritenuta ostile alla resistenza anti-israeliana: eliminare l’installazione ad opera di Hezbollah di una rete di telecomunicazioni al servizio di tale resistenza, che gli Hezbollah dominano grazie a fondi e armi che gli giungono dall’Iran.

L’operazione aveva fra i suoi scopi anche il disarmo di quei partiti – del resto poco armati – e l’affermazione dell’egemonia del Partito di Dio nei quartieri a predominanza sunnita della capitale.

Beneficiando di una copertura politica cristiana, fornitagli dal generale Michel Aoun e dalla sua Corrente patriottica libera, Hezbollah – che non riconosce la legittimità del governo di Fouad Sinora -  ha provato la sua capacità di nuocere anche bloccando il porto e l’aeroporto di Beirut, grazie a un movimento considerato (falsamente) come “disobbedienza civile”.

Il pericolo più grave nei negoziati che si aprono a Doha è che le differenti fazioni politiche non mettano tutte le carte in tavola, continuando a nascondere i loro veri obbiettivi.

Ciò che è avvenuto a Beirut non diminuisce i timori delle forze democratiche: essi sospettano che il partito islamista, - legato a un regime totalitario, l’Iran – stia preparando un colpo di stato per rovesciare il regime [in Libano].

Il capo delle Forze Libanesi esige che la conferenza di Doha affronti con chiarezza la natura dei rapporti che devono esistere fra la resistenza Hezbollah e lo Stato libanese.

Il fatto che questo partito armato fino ai denti – che possiede missili capaci di colpire Tel Avib e il sito nucleare israeliano di Dimona – abbia lanciato delle vere e proprie operazioni di guerriglia urbana a Beirut, lascia pensare che esso non esiterà a rifarlo, quando lo esige il suo interesse.

Si teme che la resistenza si trasformi un giorno un una forza del tipo dei “Guardiani della rivoluzione” e finisca per puntare le armi contro “il nemico all’interno”, compiendo il passaggio da resistenza a rivoluzione islamica, con un fine in se stessa, cercando di perpetuare la sua esistenza con la forza delle armi, usate “per proteggere le armi”.

Certo, Hezbollah ha firmato con il gen. Aoun un “accordo d’intesa” in cui si esclude questa ipotesi. Ma la fiducia non emerge, e l’esistenza di un legame politico-religioso fra Hezbllah e la Repubblica islamica dell’Iran, definita “wilayat al fakih” ("guardiana della legge islamica"), obbliga il partito islamista a seguire le direttive che vengono da Teheran. Ciò impedisce agli altri partiti libanese di dormire sonni tranquilli. A ciò si aggiunge il fatto che gli Stati Uniti considerano gli Hezbollah una “organizzazione terrorista” e che l’asse del male passa attraverso due Paesi, l’Iran e la Siria, che Washington considera degi Stati-canaglia.

Per comprendere quanto succede, va ricordato che la crisi attuale è legata in modo stretto alla degradazione dei rapporti fra Libano e Siria dopo l’attentato che è costata la vita all’ex primo ministro Rafic Hariri. Accusato, il regime siriano si è sempre difeso affermando la sua estraneità. Nonostante ciò, i sospetti verso la Siria pesano ancora di più anche perché questo Paese così vicino rivendica non solo il diritto ad interessarsi alla politica libanese, ma anche il diritto di dire la sua.

La crisi libanese è perciò frutto di un insieme di tanti fattori. Il Libano non può sfuggirvi se non grazie a una dottrina di “neutralità positiva”, che lo metta al riparo delle scosse della storia.

Dal Qatar potrà emergere la pace? Dipende dalla maturità di tutti gli attori politici, compresi quelli internazionali e regionali. Si capirà che è nell’interesse del mondo lasciar vivere in pace questo “laboratorio di convivenza”, considerato da Giovanni Paolo II come un “messaggio” al mondo intero? E i libanesi sapranno far prevalere la loro volontà di vivere insieme al di sopra di ogni altra considerazione, pur così provati dagli ultimi combattimenti? Sapranno dare priorità su tutto alla loro pace e prosperità, cioè alla loro stessa esistenza? Sapranno insomma far passare “il Libano,anzitutto”? Prima dell’Iran, della Siria, perfino della Palestina, per quanto crudele possa essere questo dramma che colpisce la coscienza di tutti gli arabi?

Ulisse si lega all’albero della nave per resistere alla chiamata delle sirene: bisogna che anche il Libano si leghi all’albero della sua vocazione storica, perché la smetta di cedere alle chiamate che vengono dai quattro angoli del mondo - che minacciano di continuo  di farlo scoppiare – e si metta al riparo da tutte le disillusioni.

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