26/02/2009, 00.00
CINA
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Pechino: la polizia nasconde ogni notizia sui tre che si sono dati fuoco

Taciute persino le identità, per non fare sapere le ragioni del gesto, forse una protesta estrema contro la violazione di diritti. Ieri a Shenzhen si dà fuoco un operaio licenziato e non pagato. Rischia di morire in carcere Wang Guilan, attivista per i diritti umani cui sono negate cure mediche.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Le autorità tacciono ogni notizia sui tre – due uomini e una donna - che ieri si sono dati fuoco nella loro automobile all’incrocio tra Changan Avenue e la via pedonale Wangfujing, al centro di Pechino, un chilometro circa da piazza Tiananmen.

L’uomo di 59 anni e la donna di 58 sono ricoverati all’ospedale Jishuitan in condizioni gravi ma non disperate. Non si hanno notizie dell’altro uomo, che testimoni oculari descrivono come giovane: si ritiene sia trattenuto dalla polizia. Si sono dati fuoco quando la polizia li ha fermati per controlli perché la targa è “di fuori Pechino” e l’auto esponeva tre bandiere rosse. I poliziotti hanno subito estratto le persone dall’auto, che poi è esplosa.

L’agenzia statale Xinhua ha soltanto scritto che i tre erano a Pechino per presentare “petizioni personali”. Ma appare significativo che le autorità nemmeno diano le generalità, utili a chiarire le ragioni del gesto. Testimoni dicono che la targa dell’auto era dello Xinjiang e che i tre sembravano di etnia uighuri.

In Cina non sono rare simili proteste estreme a fronte della negazione sistematica dei diritti. L’immolazione pubblica è da molti considerata un rifiuto estremo dell’altrui ingiustizia e violenza e un modo di additare a tutti il comportamento riprovevole dell’altro. Negli anni scorsi almeno una decina di persone si sono date fuoco in Piazza Tiananmen, centro di Pechino e luogo ricco di storia. Il 20 luglio 2006 Wang Congan, migrante del Jiangsu, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco davanti a centinaia di turisti. Wang, che è sopravvissuto, non aveva ricevuto mesi di salario da una ditta edile nella contea di Yuanan (Hubei) ed era venuto a Pechino per chiedere giustizia, senza però ottenerla. In precedenza si sono dati fuoco una coppia di anziani coniugi ingiustamente cacciata di casa, altri operai frodati del salario, oppure persone stanche di presentare per anni petizioni che non ricevono risposta.

L'accaduto potrebbe essere collegato anche alla concomitanza con ricorrenze importanti: tra pochi giorni inizia l’annuale Assemblea nazionale del popolo e sono vicini il 50mo anniversario della rivolta del Tibet, il 20mo del massacro di piazza Tiananmen contro gli attivisti prodemocrazia, il 10mo del bando del movimento spirituale Falun Gong, il 60mo dell’occupazione cinese dello Xinjiang.

Proprio ieri a Shenzhen si è dato fuoco Fang Donglei, lavoratore migrante cacciato dalla datrice di lavoro Welluxe Technology and Manifacturing, senza ragione e senza pagargli la liquidazione. La moglie Li Xinxia ha spiegato al South China Morning Post che, dopo un’ennesima lite con il supervisore  della ditta, si è dato fuoco davanti a questi. Ora è ricoverato in condizioni critiche con ustioni sul 55% del corpo. Se sopravvive, dovrà pagare le spese mediche: Li dice che “la ditta ha pagato all’ospedale solo 8mila yuan di deposito e ci occorre il denaro per il necessario trapianto di pelle”.

Intanto il gruppo Chinese Human Rights Defenders denuncia che Wang Guilan, detenuta da agosto in un campo di rieducazione-tramite-lavoro, rischia la vita perché le autorità carcerarie le negano le cure mediche necessarie. Wang nel 2001 è stata espropriata dalla sua attività commerciale a Enshi (Hubei) e non ha mai ricevuto un congruo indennizzo. Dopo che il Tribunale le ha negato giustizia, si è data fuoco per protesta. In seguito si è dedicata alla difesa dei diritti umani, aiutando a presentare petizioni alle autorità e denunciando con lettere pubbliche la corruzione e le iniquità di funzionari e polizia. Nel 2008 è stata arrestata per “disturbo dell’ordine sociale” per avere rilasciato un’intervista telefonica a un giornalista estero e condannata a 15 mesi di lavori forzati. Ora si sono infettate le ferite per le ustioni e soffre di ipertensione e malori cardiaci, ma le autorità rifiutano di curarla o di rilasciarla per ragioni mediche.

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